gennaio 04, 2023

NIGERIA. La Shell finalmente condannata a risarcire i danni per disastro ambientale

 

Shell, la multinazionale britannica operante nel settore petrolifero pagherà alle comunità contadine della Nigeria un risarcimento di 16 milioni di dollari per i danni ambientali causati dalle perdite del suoi oleodotti nella zona sud-orientale del Delta del Niger nel periodo tra il 2004 ed il 2007.

È quanto stabilito dall’ultima sentenza di un processo che in realtà va avanti da 14 anni, quando quattro abitanti dei villaggi di Goi e Oruma, situati proprio nel Delta, trovarono il coraggio, con l’appoggio della ONG olandese Friends of the Earth, di denunciare la Shell, accusandola di aver distrutto intere aree strategiche per pesca e coltivazione, e per questo fondamentali per la sussistenza di chi le abita.

La multinazionale petrolifera, pur accettando di pagare un indennizzo alle comunità come stabilito nel 2021 dalla Corte d’Appello dell’Aja (anche se l’ammontare del risarcimento è stato pattuito poco tempo fa), ha sempre negato di essere responsabile di quanto accaduto, attribuendo piuttosto la colpa delle fuoriuscite ad atti vandalici e di sabotaggio compiuti da terzi sui suoi oleodotti. L’accordo monetario “non prevede l’ammissione di responsabilità, risolve tutti i reclami e pone fine a tutte le controversie pendenti relative alle fuoriuscite”, ha tenuto a sottolineare Shell in un comunicato. La sentenza inoltre prevede che la multinazionale si doti al più presto – e obbligatoriamente – di un sistema di sorveglianza che monitori i suoi oleodotti, per evitare, sia nel caso di sabotaggi (come dice l’azienda) che di fuoriuscite accidentali, che episodi di questo tipo si verifichino ancora.

Non è la prima volta infatti che Shell finisce nei guai per questi motivi. Se ne parla praticamente dalle sue prime estrazioni di petrolio in Nigeria, intorno agli anni ’50, quando i problemi legati alla scarsa sicurezza degli oleodotti e ai mancati controlli periodici erano già piuttosto evidenti. E negli anni non sono stati risolti e anzi si sono accumulati a quelli di tutte le altre multinazionali. Basti pensare che solo nel periodo compreso tra il 2020 e il 2021, la National Oil Spill Detection and Response Agency (NOSDRA) della Nigeria ha registrato sul suo territorio 822 fuoriuscite di petrolio, per un totale di 28.003 barili riversati nell’ambiente. Fra gli episodi più gravi che hanno invece visto protagonista esclusivamente Shell, se ne ricordano in particolare due: quello del febbraio 2003, quando ci fu un’esplosione nel giacimento petrolifero abbandonato di Shell a Yorla, che provocò una grave fuoriuscita di petrolio e quello dell’agosto del 2008, quando un guasto all’oleodotto Trans-Niger riversò sulla comunità di Bodo 4.000 barili di greggio. In realtà di incidenti di questo tipo, negli anni, ce ne sono stati moltissimi (si possono leggere qui), ma l’espansione di Shell in Nigeria non si è mai realmente fermata: ad oggi, come riporta Altreconomiala multinazionale conta 50 pozzi, più di seimila chilometri di oleodotti e gasdotti e ricavi totali derivati dall’estrazione (nel 2019) pari a circa 4,5 miliardi di dollari.

Ci sono tuttavia degli esempi positivi. Shell ad esempio non potrà più cercare giacimenti di gas e petrolio al largo della “Wild Coast”, un’area rurale ed incontaminata facente parte della costa della provincia sudafricana Eastern Cape. Con una sentenza, l’Alta Corte di Makhanda ha stabilito che le esplorazioni in questione – effettuate generando onde sismiche con cui analizzare i fondali – erano state concesse dal governo in maniera illegale. Nel suo piccolo anche il caso del delta del Niger può essere considerato una piccola vittoria. È vero, la cifra accordata (destinata totalmente alle comunità di Oruma, Goi e Ikot Ada Udo) non ridarà agli abitanti del posto quanto perso, non ripulirà le loro terre e neppure le falde acquifere, contaminate da decine di sostanze cancerogene. Almeno non totalmente. Ma, come ha scritto la BBC, “questo traguardo è come una pietra miliare”. Si tratta in effetti del primo riconoscimento che piccole comunità agricole ottengono da un colosso petrolifero per compensare i danni ambientali provocati.

[di Gloria Ferrari]

Leggi l'articolo originale su L'Indipendente

Sullo stesso argomento leggi nel nostro blog i seguenti articoli:

Casa Africa: NIGERIA, Delta del Niger, quattro contadini portano la Shell davanti ai giudici dell’Aja per disastro ambientale (casa-africa.blogspot.com)

Casa Africa: NIGERIA. "Accuso le compagnie petrolifere di praticare il genocidio degli Ogoni" (casa-africa.blogspot.com)

Casa Africa: NIGERIA. Riprende in Olanda il processo Kiobel contro Shell per la tragica esecuzione dei "nove ogoni" (casa-africa.blogspot.com)

 

ottobre 30, 2022

Casa Africa. Seminario "Conoscere la nuova Africa"



Il Seminario vuole favorire la diffusione di una nuova narrazione dell’Africa che superi ”l’afropessimismo” di matrice coloniale e dia finalmente conto della  rapidissima crescita e delle democrazie emergenti di molti stati africani. Un’Africa che renda giustizia alla sua storia millenaria troppo spesso dimenticata dalla storiografia occidentale. Un’Africa che restituisca dignità al popolo africano. 




 


marzo 21, 2022

CASA AFRICA. Presidio. "Contro la guerra costruiamo la pace".

Domenica 20 marzo a Sanremo 14 sigle cittadine (organizzazioni politiche, sindacali e di volontariato) tra cui Casa Africa, hanno organizzato un presidio itinerante con un corteo che ha attraversato il centro della città con il lemma contro la guerra costruiamo la pace. 

Capire cosa genera la guerra e cosa significa  costruire  la pace sono stati gli argomenti contenuti nel documento condiviso da tutte le sigle promotrici e che è stato letto nel corso del  corteo. Numerosi sono stati anche gli interventi su questi  temi.

Alleghiamo il testo del documento unitamente al volantino dell'iniziativa.



febbraio 04, 2022

ISRAELE-PALESTINA. Amnesty International denuncia il crimine di apartheid perpetrato da Israele contro il popolo palestinese

 


"Le autorità israeliane
devono essere chiamate a rendere conto

del crimine di apartheid contro i palestinesi".

È quanto ha dichiarato Amnesty International in un rapporto di 278 pagine pubblicato il 1°febbraio scorso nel quale descrive dettagliatamente il sistema di oppressione e dominazione di Israele nei confronti della popolazione palestinese, ovunque eserciti controllo sui loro diritti: i palestinesi residenti in Israele, quelli dei Territori palestinesi occupati e i rifugiati che vivono in altri stati.

Riportiamo il testo dell'articolo postato sul sito della prestigiosa organizzazione internazionale con cui la stessa annuncia e motiva la sua dura condanna.

"Nel rapporto si legge che le massicce requisizioni di terre e proprietà, le uccisioni illegali, i trasferimenti forzati, le drastiche limitazioni al movimento e il diniego di nazionalità e cittadinanza ai danni dei palestinesi fanno parte di un sistema che, secondo il diritto internazionale, costituisce apartheid. Questo sistema si basa su violazioni dei diritti umani che, secondo Amnesty International, qualificano l’apartheid come crimine contro l’umanità così come definito dallo Statuto di Roma del Tribunale penale internazionale e dalla Convenzione sull’apartheid.

Amnesty International chiede al Tribunale penale internazionale di includere il crimine di apartheid nella sua indagine riguardante i Territori palestinesi occupati e a tutti gli stati di esercitare la giurisdizione universale per portare di fronte alla giustizia i responsabili del crimine di apartheid".

“Il nostro rapporto rivela la reale dimensione del regime di apartheid di Israele. Che vivano a Gaza, a Gerusalemme Est, a Hebron o in Israele, i palestinesi sono trattati come un gruppo razziale inferiore e sono sistematicamente privati dei loro diritti. Abbiamo riscontrato che le crudeli politiche delle autorità israeliane di segregazione, spossessamento ed esclusione in tutti i territori sotto il loro controllo costituiscono chiaramente apartheid. La comunità internazionale ha l’obbligo di agire”ha dichiarato Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International.

“Non è possibile giustificare in alcun modo un sistema edificato sull’oppressione razzista, istituzionalizzata e prolungata, di milioni di persone. L’apartheid non ha posto nel nostro mondo e gli stati che scelgono di essere indulgenti verso Israele si troveranno a loro volta dal lato sbagliato della storia. I governi che continuano a fornire armi a Israele e lo proteggono dai meccanismi di accertamento delle responsabilità delle Nazioni Unite stanno sostenendo un sistema di apartheid, compromettendo l’ordine giuridico internazionale ed esacerbando la sofferenza della popolazione palestinese. La comunità internazionale deve affrontare la realtà dell’apartheid israeliano e dare seguito alle molte opportunità di cercare giustizia che rimangono vergognosamente inesplorate”, ha aggiunto Callamard.

Le conclusioni di Amnesty International sono rafforzate da un crescente lavoro di organizzazioni non governative palestinesi, israeliane e internazionali che sempre più spesso applicano la definizione di apartheid alla situazione in Israele e/o nei Territori palestinesi occupati."


Questi i principali punti esaminati nel rapporto 

L’IDENTIFICAZIONE DELL’APARTHEID

Un sistema di apartheid è un regime istituzionalizzato di oppressione e di dominazione di un gruppo razziale su un altro. È una grave violazione dei diritti umani vietata dal diritto pubblico internazionale. Le ampie ricerche e l’analisi giuridica condotte da Amnesty International insieme a esperti esterni all’organizzazione dimostrano che Israele attua un sistema di questo tipo nei confronti dei palestinesi attraverso leggi, politiche e prassi che assicurano trattamenti discriminatori crudeli e prolungati.

Nel diritto penale internazionale, specifici atti illegali commessi nel contesto di un sistema di oppressione e di dominazione con lo scopo di mantenerlo costituiscono il crimine contro l’umanità di apartheid. Questi atti sono descritti nella Convenzione sull’apartheid e nello Statuto di Roma del Tribunale penale internazionale e comprendono le uccisioni illegali, la tortura, i trasferimenti forzati e il diniego dei diritti e delle libertà basilari.

Amnesty International ha documentato atti vietati dalla Convenzione sull’apartheid e dallo Statuto di Roma del Tribunale penale internazionale in tutte le aree sotto il controllo israeliano, sebbene si verifichino con maggiore frequenza nei Territori palestinesi occupati piuttosto che in Israele.

Le autorità israeliane hanno introdotto tutta una serie di misure per negare deliberatamente i diritti e le libertà basilari ai palestinesi, anche attraverso drastiche limitazioni al movimento nei Territori palestinesi occupati, i cronici e discriminatori minori investimenti a favore delle comunità palestinesi residenti in Israele e il diniego del diritto al ritorno dei rifugiati. Il rapporto diffuso oggi documenta inoltre i trasferimenti forzati, la detenzione amministrativa, la tortura e le uccisioni illegali sia in Israele che nei Territori palestinesi occupati.

Amnesty International ha rilevato che questi atti formano parte di attacchi sistematici e diffusi contro la popolazione palestinese, commessi allo scopo di mantenere il sistema di oppressione e di dominazione. Pertanto, costituiscono il crimine contro l’umanità di apartheid.

L’uccisione illegale di manifestanti palestinesi è forse il più chiaro esempio di come le autorità israeliane ricorrano ad atti vietati per mantenere il loro status quo. Nel 2018 i palestinesi di Gaza avviarono proteste settimanali lungo il confine con Israele per affermare il diritto al ritorno dei rifugiati e chiedere la fine del blocco. Ancora prima che le proteste avessero inizio, alti funzionari israeliani avvisarono che contro i palestinesi che si fossero avvicinati al confine sarebbe stato aperto il fuoco. Alla fine del 2019, le forze israeliane avevano ucciso 214 civili palestinesi, tra cui 46 minorenni.

Alla luce delle sistematiche uccisioni illegali di palestinesi documentate nel suo rapporto, Amnesty International chiede al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di imporre un embargo totale sulle armi verso Israele. Questo embargo, a causa delle migliaia di uccisioni illegali di palestinesi compiute dalle forze israeliane, dovrebbe comprendere tutte le armi e le munizioni, così come le forniture di sicurezza. Il Consiglio di sicurezza dovrebbe imporre anche sanzioni mirate, come il congelamento dei beni dei funzionari israeliani implicati nel crimine di apartheid.

PALESTINESI TRATTATI COME UNA MINACCIA DEMOGRAFICA

Dalla sua costituzione nel 1948, Israele ha portato avanti politiche per istituire e mantenere una maggioranza demografica ebrea e per massimizzare il controllo sulle terre e sulle risorse a vantaggio degli ebrei israeliani. Nel 1967 Israele ha esteso tali politiche alla Cisgiordania e alla Striscia di Gaza.

Oggi tutti i territori controllati da Israele continuano a venire amministrati allo scopo di beneficiare gli ebrei israeliani a scapito dei palestinesi, mentre i rifugiati palestinesi continuano a essere esclusi.

Amnesty International riconosce che gli ebrei, come i palestinesi, rivendicano il diritto all’autodeterminazione e non contesta il desiderio di Israele di essere una patria per gli ebrei. Analogamente, non considera che la definizione che Israele dà di sé stesso come di “uno stato ebreo” indichi di per sé l’intenzione di opprimere e dominare.

Via via, però, i governi israeliani hanno considerato i palestinesi una minaccia demografica e hanno imposto misure per controllare e farne decrescere la presenza e l’accesso alle terre in Israele e nei Territori palestinesi occupati. Questi intenti demografici sono ben illustrati dai progetti ufficiali di “ebraizzare” aree di Israele e della Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, che continuano a esporre migliaia di palestinesi al rischio di un trasferimento forzato.

OPPRESSIONE SENZA FRONTIERE

Le guerre del 1947-49 e del 1967, il controllo militare di Israele sui Territori palestinesi occupati e la creazione di regimi giudiziari e amministrativi distinti hanno separato le comunità palestinesi e le hanno segregate dagli ebrei israeliani. I palestinesi sono frammentati geograficamente e politicamente e subiscono vari livelli di discriminazione a seconda del loro status e di dove vivano.

I palestinesi israeliani godono di maggiori diritti e libertà rispetto a quelli dei Territori palestinesi occupati, mentre l’esperienza dei palestinesi di Gaza è molto differente da quella di coloro che vivono in Cisgiordania. Nondimeno, le ricerche di Amnesty International hanno concluso che tutti i palestinesi sono sottoposti al medesimo sistema sovrastante. Il trattamento dei palestinesi da parte di Israele persegue lo stesso obiettivo: privilegiare gli ebrei israeliani nella distribuzione delle terre e delle risorse e ridurre al minimo la presenza dei palestinesi e il loro accesso alla terra.

Amnesty International può dimostrare che le autorità israeliane trattano i palestinesi come un gruppo razziale inferiore, definito dal loro status non-ebreo e arabo. Questa discriminazione razziale affonda le radici in leggi che colpiscono i palestinesi sia in Israele che nei Territori palestinesi occupati.

Ad esempio, ai palestinesi residenti in Israele viene negata la nazionalità e ciò costituisce una differenziazione giuridica rispetto agli ebrei israeliani. In Cisgiordania e a Gaza, dove Israele controlla il registro anagrafico sin dal 1967, i palestinesi non hanno alcuna cittadinanza, molti sono considerati apolidi e devono chiedere carte d’identità all’esercito israeliano per vivere e lavorare nei territori.

I rifugiati palestinesi e i loro discendenti, sfollati nelle guerre del 1947-49 e del 1967, continuano a vedersi negato il diritto al ritorno nel loro precedente luogo di residenza. L’esclusione dei rifugiati da parte di Israele è una evidente violazione del diritto internazionale che lascia milioni di persone in un limbo perpetuo di sfollamento forzato.

I palestinesi dell’annessa Gerusalemme Est hanno un permesso permanente di residenza anziché la cittadinanza e, peraltro, questo status è permanente solo sulla carta. Dal 1967, il ministero dell’Interno ha revocato a sua discrezione la residenza a oltre 14.000 palestinesi, che sono stati trasferiti a forza fuori dalla città.

CITTADINI DI LIVELLO INFERIORE

I cittadini palestinesi di Israele, che costituiscono circa il 21 per cento della popolazione, subiscono svariate forme di discriminazione istituzionale. Nel 2018 tale discriminazione è stata cristallizzata in una legge costituzionale che, per la prima volta, descrive Israele come “stato-nazione del popolo ebreo”, promuove la costruzione degli insediamenti ebraici e degrada l’arabo da lingua ufficiale a lingua con uno status speciale.

Il rapporto di Amnesty International documenta come i palestinesi non possano effettivamente stipulare contratti di locazione sull’80 per cento dei terreni di stato israeliani a seguito di requisizioni razziste di terreni e di una serie di leggi discriminatorie sull’assegnazione delle terre, di piani edilizi e di regolamenti urbanistici locali.

La situazione della regione del Negev/Naqab, nel sud di Israele, è un efficace esempio di come le politiche e i piani edilizi israeliani escludano intenzionalmente i palestinesi. Dal 1948 le autorità israeliane hanno adottato svariate politiche per “ebraizzare” la regione, ad esempio designando ampie zone come riserve naturali o poligoni di tiro e stabilendo obiettivi di crescita della popolazione ebraica. Ciò ha avuto conseguenze devastanti per le decine di migliaia di beduini palestinesi che vivono nella regione.

Attualmente 35 villaggi beduini in cui risiedono circa 68.000 personesono “non riconosciuti” da Israele: ciò significa che non hanno forniture di corrente elettrica e di acqua e sono soggetti a ripetute demolizioni. Poiché questi villaggi non hanno uno status ufficiale, i loro abitanti subiscono limitazioni nella partecipazione politica e sono esclusi dal sistema sanitario e da quello educativo. Di conseguenza, in molti sono stati costretti a lasciare le loro case: ciò costituisce trasferimento forzato.

Decenni di deliberato trattamento iniquo dei palestinesi residenti in Israele ha determinato per loro un profondo svantaggio economico rispetto agli ebrei israeliani. Questa condizione è acuita dall’assegnazione evidentemente discriminatoria delle risorse di stato, un esempio della quale è il recente piano governativo di ripresa dalla pandemia da Covid-19: solo l’1,7 per cento delle risorse è stato assegnato alle autorità locali palestinesi.

LO SPOSSESSAMENTO

Lo spossessamento e lo sfollamento dei palestinesi dalle loro abitazioni è un pilastro determinante del sistema israeliano di apartheid. Dalla sua istituzione, lo stato israeliano ha eseguito massicce e crudeli requisizioni di terre palestinesi e continua ad applicare una miriade di leggi e politiche che forzano la popolazione palestinese a risiedere in piccole enclavi. Dal 1948 Israele ha demolito centinaia di migliaia di case e di altre strutture palestinesi in tutte le aree sotto la sua giurisdizione e sotto il suo effettivo controllo.

Come nella regione del Negev/Naqab, i palestinesi di Gerusalemme Est e dell’area C dei Territori palestinesi occupati vivono sotto totale controllo israeliano. Le autorità negano ai palestinesi il permesso di costruire in queste zone, non lasciando loro altra alternativa che edificare strutture illegali che vengono via via demolite.

Nei Territori palestinesi occupati, la continua espansione degli insediamenti israeliani – una politica attuata dal 1967 – rende ancora più grave la situazione. Oggi gli insediamenti coprono il 10 per cento delle terre della Cisgiordania. Tra il 1967 e il 2017 circa il 38 per cento delle terre palestinesi di Gerusalemme Est è stato espropriato.

I quartieri palestinesi di Gerusalemme Est sono spesso presi di mira da organizzazioni di coloni che, col pieno appoggio del governo israeliano, agiscono per sfollare le famiglie palestinesi e annettere le loro case. Uno di questi quartieri, Sheikh Jarrah, è al centro di frequenti proteste dal maggio 2021: le famiglie che vi risiedono cercano di difendere le loro case dalle minacce degli esposti di sgombero presentati dai coloni.

DRASTICHE LIMITAZIONI DI MOVIMENTO

Dalla metà degli anni Novanta le autorità israeliane hanno imposto sempre più stringenti limitazioni al movimento dei palestinesi nei Territori palestinesi occupati. Un reticolato di checkpoint militari, posti di blocco, barriere e altre strutture controlla il loro movimento e limita i loro spostamenti in Israele o all’estero.

Una barriera di 700 chilometri, che Israele sta ancora ampliando, ha isolato all’interno di “zone militari” le comunità palestinesi che, per entrare e uscire dalle loro abitazioni devono ottenere più permessi speciali. A Gaza oltre due milioni di palestinesi vivono in una crisi umanitaria creata dal blocco israeliano. È quasi impossibile per i gazani viaggiare all’estero o nel resto dei Territori palestinesi occupati: di fatto, sono segregati dal resto del mondo.

“Per i palestinesi, la difficoltà di viaggiare all’interno e all’esterno dei Territori palestinesi occupati è un costante ricordo del fatto che sono privi di potere. Ogni loro singolo movimento è soggetto all’approvazione dell’esercito israeliano e la più semplice attività quotidiana è condizionata da una rete di controlli violenti”, ha commentato Callamard.

“Il sistema dei permessi nei Territori occupati palestinesi è l’emblema della patente discriminazione di Israele contro i palestinesi. Mentre loro sono circondati da un blocco, fermi per ore ai checkpoint o in attesa che sia rilasciato l’ennesimo permesso per circolare, i cittadini e i coloni israeliani possono muoversi come desiderano”, ha sottolineato Callamard.

Amnesty International ha esaminato ciascuna delle giustificazioni di sicurezza addotte da Israele come base per il trattamento dei palestinesi. Sebbene alcune delle politiche israeliane possano essere state elaborate per conseguire obiettivi di sicurezza legittimi, esse sono state attuate in un modo enormemente sproporzionato e discriminatorio e non in regola col diritto internazionale. Altre politiche non mostrano alcuna ragionevole base in termini di sicurezza e derivano chiaramente dall’intenzione di opprimere e dominare.

I PROSSIMI PASSI

Il rapporto di Amnesty International contiene numerose raccomandazioni specifiche affinché Israele possa smantellare il sistema di apartheid e la discriminazione, la segregazione e l’oppressione che lo sostengono.

L’organizzazione per i diritti umani chiede in primo luogo la fine delle pratiche brutali delle demolizioni delle abitazioni e degli sgombri forzati.

Inoltre, Israele deve riconoscere uguali diritti a tutti i palestinesi in Israele e nei Territori palestinesi occupati, come prevedono i principi del diritto internazionale dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario; deve riconoscere il diritto dei rifugiati e dei loro discendenti al ritorno nelle abitazioni dove loro o i loro familiari vivevano; deve fornire piena riparazione alle vittime delle violazioni dei diritti umani e dei crimini contro l’umanità.

La dimensione e la gravità delle violazioni documentate nel rapporto di Amnesty International richiedono un drastico cambiamento dell’approccio della comunità internazionale alla crisi dei diritti umani in atto in Israele e nei Territori palestinesi occupati.

Tutti gli stati possono esercitare la giurisdizione universale nei confronti di persone ragionevolmente sospettate di aver commesso il crimine di apartheid. Gli stati parte dello Statuto di Roma del Tribunale penale internazionale hanno l’obbligo di farlo.

“La risposta internazionale all’apartheid non deve più limitarsi a blande condanne e a formule ambigue. Se noi non ne affronteremo le cause di fondo, palestinesi e israeliani rimarranno intrappolati nel ciclo di violenza che ha distrutto così tante vite. Israele deve smantellare il sistema dell’apartheid e iniziare a trattare i palestinesi come esseri umani con uguali diritti e dignità. Se non lo farà, la pace e la sicurezza resteranno una prospettiva lontana per gli israeliani come per i palestinesi”, ha concluso Callamard.

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dicembre 27, 2021

SUD AFRICA - PALESTINA. Desmond Tutu ci ha lasciato, ci resta però il suo appello al popolo di Israele: liberate voi stessi liberando la Palestina

 

All’età di 90 anni ci ha lasciati Desmond Tutu, arcivescovo anglicano di Città del Capo, premio Nobel per la Pace grazie al suo impegno per la Conciliazione in Sud Africa.

Simbolo della lotta contro l’apartheid. Insieme a Nelson Mandela sosteneva che il popolo sudafricano non sarebbe stato completamente libero senza la libertà del popolo palestinese.

Di qui l’appello al popolo al popolo d’Israele affinché si liberi liberando la Palestina.

 


 

AL POPOLO D’ISRAELE: LIBERATE VOI STESSI LIBERANDO LA PALESTINA

24 agosto 2014

Nelle ultime settimane, membri della società civile del mondo intero hanno lanciato azioni senza precedenti contro le risposte brutali e sproporzionate di Israele al lancio di razzi dalla Palestina. Se sommiamo tutti i partecipanti alle manifestazioni dell’ultimo weekend per chiedere giustizia in Israele e Palestina – a Cape Town, Washington, New York, Nuova Delhi, Londra, Dublino, Sydney, e in tutte le altre città – troviamo senza alcun dubbio la rappresentazione della più importante mobilitazione dell’opinione pubblica per un’unica causa mai vista nella storia dell’umanità. Un quarto di secolo fa, ho preso parte a manifestazioni contro l’apartheid, che avevano raccolto moltissime persone.

Non avrei mai immaginato che avremmo nuovamente assistito a manifestazioni di tale portata, ma quella di sabato scorso a Cape Town è stata almeno della stessa importanza. Tra i manifestanti c’erano giovani ed anziani, musulmani, cristiani, ebrei, indù, buddisti, agnostici, atei, neri, bianchi, rossi e verdi… E’ quanto ci si può aspettare da una nazione vivace, tollerante e multiculturale.

Ho chiesto alla folla di cantare con me: “Siamo contro l’ingiustizia dell’occupazione illegale della Palestina. Siamo contro le uccisioni a Gaza. Siamo contro le umiliazioni inflitte ai palestinesi ai posti controllo e di blocco delle strade. Siamo contro le violenze perpetrate da tutte le parti in causa. Ma non siamo contro gli ebrei.”

Precedentemente, nella settimana, avevo fatto un appello per la sospensione della partecipazione di Israele all’Unione Internazionale degli Architetti, che si teneva in Sudafrica. Ho invitato le sorelle ed i fratelli israeliani presenti alla conferenza a dissociarsi attivamente, nell’ambito della loro professione, dalla progettazione e dalla costruzione di infrastrutture finalizzate a perpetuare l’ingiustizia, in particolare tramite il muro di separazione, i terminali di sicurezza, i posti di controllo e la costruzione di colonie edificate sui territori palestinesi occupati.

Ho detto loro: “Vi prego di portare con voi questo messaggio: per favore, invertite il corso della violenza e dell’odio, unendovi al movimento non violento per la giustizia per tutti gli abitanti della regione”. Nelle ultime settimane, più di 1,7 milioni di persone in tutto il mondo hanno aderito al movimento unendosi ad una campagna di Avaaz che chiede alle compagnie che traggono profitto dall’occupazione israeliana e/o sono coinvolte nei maltrattamenti e nella repressione dei palestinesi, di ritirarsi. La campagna è rivolta specificamente ai fondi di pensione dei Paesi Bassi, ABP, alla Barclays Bank, al fornitore di sistemi di sicurezza G4S, alle attività di trasporto dell’azienda francese Véolia, all’azienda di computer Hewlett-Packard, e al costruttore di bulldozer Caterpillar.

Il mese scorso 17 governi europei hanno invitato i propri cittadini ad interrompere le relazioni commerciali e gli investimenti nelle colonie israeliane illegali. Recentemente, si è potuto vedere il fondo pensionistico olandese PGGM ritirare decine di milioni di euro dalle banche israeliane, la fondazione Bill e Melinda Gates disinvestire da G4S, e la chiesa presbiteriana americana annullare un investimento di circa 21 milioni di dollari nelle imprese HP, Motorola Solutions e Caterpillar. E’ un movimento che si va ampliando. La violenza genera violenza e odio, che a sua volta non fanno che produrre altra violenza e odio. Noi sudafricani conosciamo bene la violenza e l’odio. Sappiamo cosa significa essere dimenticati dal mondo, quando nessuno vuole capire o anche solo ascoltare ciò che noi esprimiamo. Questo fa parte delle nostre radici e del nostro vissuto. Ma sappiamo anche ciò che il dialogo tra i nostri dirigenti ha permesso, quando delle organizzazioni accusate di “terrorismo” vennero nuovamente autorizzate ad esistere, ed i loro capi, tra cui Nelson Mandela, vennero liberati dalla prigione o dall’esilio.

Noi sappiamo che quando i nostri dirigenti hanno cominciato a parlarsi, la logica della violenza che aveva frantumato la nostra società si è dissolta, fino a scomparire. Gli atti terroristici che avvennero dopo l’inizio di questi cambiamenti – come gli attacchi ad una chiesa e ad un bar – furono unanimemente condannati, e chi ne era stato l’artefice non trovò più alcun consenso quando la parola passò alle urne. L’euforia che seguì a questa prima votazione non si limitò ai soli sudafricani neri. La nostra soluzione pacifica era meravigliosa perché ci includeva tutti quanti. E quando, in seguito, abbiamo dato vita ad una costituzione così tollerante, generosa ed aperta, che dio stesso ne sarebbe andato fiero, ci siamo sentiti tutti come liberati.

Certo, il fatto di aver avuto dei dirigenti straordinari ci ha aiutato. Però, ciò che alla fine ha spinto questi dirigenti a riunirsi intorno ad un tavolo di negoziati è stato l’insieme di strumenti efficaci e nonviolenti che erano stati messi in atto per isolare il Sudafrica sul piano economico, accademico, culturale e psicologico. In un momento chiave, il governo dell’epoca aveva finito per rendersi conto che continuare con l’apartheid avrebbe costituito più un danno che un vantaggio. L’embargo sul commercio applicato negli anni ’80 al Sudafrica da alcune multinazionali impegnate fu un fattore determinante per la caduta, senza spargimento di sangue, del regime di apartheid. Queste imprese avevano capito che sostenendo l’economia sudafricana contribuivano al mantenimento d’uno statu quo ingiusto.

Coloro che continuano a fare affari con Israele, contribuendo così a garantire un senso di “normalità” alla società israeliana, rendono un pessimo servizio ai popoli di Israele e Palestina. Contribuiscono al mantenimento d’uno statu quo profondamente ingiusto. Chi sostiene l’isolamento temporaneo di Israele afferma che israeliani e palestinesi hanno gli stessi diritti alla dignità e alla pace. In ultima analisi, gli eventi che hanno avuto luogo a Gaza nell’ultimo mese sono un test per chi crede nei valori umani. E ‘sempre più evidente che i politici e i diplomatici sono incapaci di trovare risposte, e che la responsabilità di negoziare una soluzione duratura alla crisi in terra santa è in capo alla società civile ed ai popoli stessi di Israele e della Palestina. Al di là della recente devastazione di Gaza, persone oneste provenienti dal mondo intero – in particolare in Israele – sono profondamente turbate dalle violazioni quotidiane della dignità umana e della libertà di movimento, che i palestinesi subiscono ai posti di controllo e ai blocchi stradali. Inoltre, le politiche israeliane di occupazione illegale e la costruzione di edifici in zone tampone sul territorio occupato aumentano la difficoltà di raggiungere un accordo che sia accettabile da tutti per il futuro.

Lo stato di Israele agisce come se non esistesse un domani. I suoi abitanti con conosceranno l’esistenza tranquilla e sicura a cui aspirano, ed a cui hanno diritto, finché i loro dirigenti perpetueranno le condizioni che determinano il perdurare del conflitto. Ho condannato coloro che in Palestina sono responsabili dei lanci di missili e razzi su Israele. Essi attizzano il fuoco dell’odio. Io sono contro ogni forma di violenza. Ma occorre essere chiari, il popolo di Palestina ha tutto il diritto di lottare per la propria dignità e libertà. Questa lotta è sostenuta da molte persone in tutto il mondo. Nessun problema creato dall’uomo è senza via d’uscita, se gli uomini mettono in comune i loro sinceri sforzi per risolverlo. Nessuna pace è impossibile se le persone sono determinate ad ottenerla. La pace necessita che il popolo israeliano e quello palestinese riconoscano l’essere umano che è in loro e si riconoscano reciprocamente per comprendere la propria interdipendenza. I missili, le bombe e le invettive brutali non sono la soluzione.

Non esiste soluzione militare. La soluzione verrà più probabilmente dai mezzi nonviolenti che abbiamo sviluppato in Sudafrica negli anni ’80 per persuadere il governo sudafricano della necessità di cambiare la sua politica. La ragione per cui questi strumenti – boicottaggio, sanzioni e disinvestimenti – si sono alla fine rivelati efficaci, è che avevano il sostegno di una massa critica, sia all’interno del paese che all’estero. Lo stesso tipo di sostegno nei confronti della Palestina di cui siamo stati testimoni nel mondo durante queste ultime settimane. La mia preghiera al popolo di Israele è di guardare al di là del momento contingente, di guardare al di là della rabbia per essere costantemente sotto assedio, di concepire un mondo in cui Israele e la Palestina coesistono – un mondo in cui regnano la dignità ed il rispetto reciproco. Ciò richiede un cambiamento di paradigma.

Un cambiamento che riconosca che un tentativo di mantenere lo statu quo è destinato a condannare le prossime generazioni alla violenza e all’insicurezza. Un cambiamento che smetta di considerare una critica legittima alla politica dello stato come un attacco contro gli ebrei. Un cambiamento che ha inizio all’interno e si propaga, attraverso le comunità, le nazioni e le regioni, alla diaspora che è diffusa in tutto il mondo di cui facciamo parte. Il solo mondo di cui facciamo parte! Quando i popoli si uniscono per una causa giusta, sono invincibili. Dio non interferisce nelle vicende umane, nella speranza che la risoluzione dei nostri conflitti ci farà crescere ed imparare da soli. Però dio non dorme. I testi sacri ebraici dicono che dio sta dalla parte dei deboli, dei poveri, delle vedove, degli orfani, dello straniero che ha permesso a degli schiavi di compiere il loro esodo verso una Terra Promessa.  E’ stato il profeta Amos a dire che dovremmo lasciare che la giustizia scorra come un fiume. Alla fine, il bene trionferà.

Cercare di liberare il popolo di Palestina dalle umiliazioni e dalle persecuzioni che gli vengono inflitte dalla politica di Israele è una causa nobile e giusta. E’ una causa che il popolo di Israele ha l’obbligo per sé stesso di sostenere

Nelson Mandela ha detto che i sudafricani non si sentiranno completamente liberi finché i palestinesi non lo saranno. Avrebbe potuto aggiungere che la liberazione della Palestina sarebbe anche la liberazione di Israele.

 

Testo originale in Desmond Tutu: la mia preghiera al popolo di Israele: liberatevi liberando la Palestina - Invictapalestina