dicembre 31, 2012

LA PRIMAVERA ARABA E' DONNA


Il 17 dicembre 2010 il tunisino Mohammed Bouazizi, venditore ambulante di Sidi Bouzid, si dava fuoco per chiedere dignità e protestare contro la polizia corrotta del dittatore tunisino Ben Ali che gli aveva sequestrato la merce. Quel gesto portò in strada migliaia e migliaia di persone in tutta la Tunisia dando inizio alla cosiddetta Primavera araba, l’insieme di proteste e rivolte che hanno sconvolto il mondo arabo e che in pochi mesi hanno fatto cadere dittature decennali in Egitto, Libia, Yemen e Tunisia. Rivolte dai percorsi accidentati e dagli esiti ancora incerti, strette come sono tra genuine manifestazioni di popolo che chiedono libertà e giustizia e le strategie di potenze straniere. Rivolte sanguinose che ancora proseguono contro i regimi del Bahrain e della Siria.






"Con o senza primavere, è però sul corpo delle donne che si combatte la vera battaglia di libertà. E sebbene ad innescare le rivolte sia stato un uomo - il venditore ambulante Mohamed Bouazizi - la vera rivoluzione sarà sicuramente al femminile". Viaggio nel Maghreb delle donne


Quasi tutte le Rivolte arabe hanno infatti un volto femminile, le grida delle donne si sono alzate nelle piazze del Bahrain, dello Yemen, dell’Egitto, della Libia e della Tunisia. Le donne sono scese a migliaia nelle strade con ruoli diversi e su tutti i fronti: come dottori e infermiere hanno soccorso i feriti, hanno guidato cortei, cantato gli inni e i canti di liberazione, fronteggiato le forze militari, sfidato il coprifuoco imposto dalle autorità, affrontato i gas lacrimogeni, infine sono state arrestate, talvolta violentate e perfino uccise.

Oltre ad essere in prima linea nelle piazze le donne sono diventate anche protagoniste della comunicazione. Tramite l’uso dei nuovi media hanno fornito un apporto fondamentale alla informazione e alla controinformazione.  Le bloggers  hanno rappresentato uno strumento per costruire movimenti, reti di movimenti e chiamare alla mobilitazione in difesa dello Stato di diritto e dei diritti delle donne come paradigma di cambiamento e di risveglio democratico.  Le donne arabe hanno così preso le redini dell’informazione on-line, della gestione dei blog e di Facebook, che hanno reso possibile la diffusione a livello mondiale delle notizie sulla Primavera araba, in chiave pienamente femminile.



Estremamente significativa è l’iniziativa che quattro attiviste arabe, Diala Haidar e Yalda Younes (libanesi), Farah Barqawi (palestinese) e Sally Zohney (egiziana), hanno lanciato il primo ottobre 2011 aprendo su Facebook la pagina The uprising of women in the Arab worldcon cui si prefiggono di far conoscere “la rivolta delle donne arabe” e i problemi che queste devono affrontare nei loro Paesi ancora soggiogati dal potere degli uomini. Seguendo lo slogan “Together for fearless, free & independent women in the arab world”, le blogger invitano le persone a inviare una propria foto realizzata tenendo in mano un cartello con il messaggio “Io sono con la rivolta delle donne del mondo arabo perché…” per comunicare e diffondere il proprio sostegno alla loro lotta.


Sono davvero tante le avanguardie dell’attivismo femminile diventate motore di cambiamento per l’intera società araba, tra queste vanno ricordate:



Asmaa Mahfouz - Egitto




E' la giovane donna che ha favorito l'inizio della rivoluzione in Egitto. In prima linea all’interno del movimento giovanile egiziano, di fronte alla fortissima repressione del regime nei confronti della stampa decise di utilizzare le piattaforme multimediali di Facebook, Twitter e Youtube per sostenere le manifestazioni di protesta del suo paese, facendole conoscere così anche al mondo occidentale e spiegandone le ragioni censurate dal regime. In un video diffuso alla vigilia della rivoluzione, Asmaa chiamava alla mobilitazione popolare con queste parole: This is a summary what Ms. Asma Mahfouz is saying on "I'm making this video to give you one simple message. We want to go down to Tahrir Square on January 25 . If we still have honor and we want to live in dignity on this land, we have to go down on January 25… Whoever says it's not worth it because there will only be a handful of people, I want to tell him you are the reason behind this, and you are a traitor just like the president or any security cop who beats us in the streets. Your presence with us will make a difference, a big difference! ""Sto facendo questo video per darvi un messaggio semplice. Vogliamo scendere in piazza Tahrir il 25 gennaio. Se abbiamo ancora l'onore e vogliamo vivere in dignità su questa terra, dobbiamo andare in piazza, il 25 gennaio ... A chi dice che non ne vale la pena perché ci sarà solo una manciata di persone, voglio dirgli: tu sei la causa di ciò, tu sei un traditore, proprio come il presidente o un poliziotto della sicurezza che ci batte per le strade. La tua presenza con noi può fare la differenza, una grande differenza! " www.asmamahfouz.com




Israa Abdel Fattah - Egitto
Attivista e blogger è stata tra i fondatori del Movimento 6 aprile che riunisce giovani contestatori del regime di Mubarak. Un movimento nato su Facebook, ma che è presto passato dalla realtà virtuale alla strada attraverso continui appelli alla mobilitazione popolare. Invitata alla VII Assemblea per la democrazia (14-17 ottobre 2012) tenutasi in Perù ha così evidenziato gli obiettivi per raggiungere una vera democrazia in Egitto. "Abbiamo bisogno di una Costituzione per tutti gli egiziani che rappresenti la diversità del nostro paese, abbiamo bisogno, attraverso di essa, di avere la vera libertà e la democrazia per tutti e che la gente conosca il valore di questa costituzione”. Attualmente Israa continua la sua lotta in difesa dei diritti delle donne e afferma: “Purtroppo i diritti delle donne non sono contemplati nella costituzione attuale per cui dobbiamo continuare a lavorare a questo scopo, abbiamo bisogno di cambiare le mentalità, migliorare l’educazione e i mezzi di comunicazione” 

Bothaina Kamel - Egitto
Giornalista televisiva Il suo è un volto molto noto in Egitto, è stata per anni la presentatrice di uno dei tg più seguiti ma ha subito varie censure per la sua continua opposizione al regime di Mubarak. Si è candidata alla  presidenza dell'Egitto del dopo Mubarak ciò che ha suscitato molte polemiche da parte dell'opinione pubblica, ma lei motiva la sua scelta “Penso che la mia candidatura non sia assolutamente una provocazione, è tempo per le donne di mirare anche alle cariche più alte e dunque alla presidenza.”


Lina Ben Mhenni - Tunisia
con il suo blog Tunisian girl (da cui è nato un libro edito in Italia) ha denunciato abusi, contestato prepotenze e coordinato azioni di protesta fino a conquistarsi un ruolo di pericolosa dissidente già a 27 anni. Il suo attivismo sul web l'ha portata alla nomina a Premio Nobel per la Pace.

Le donne Tunisine sono state in prima linea nella battaglia, poi vinta, contro la riforma della costituzione proposta dall’ala fondamentalista del partito islamico-conservatore al governo, Ennahda, che stabiliva il principio di "complementarietà" della donna rispetto all’uomo pretendendo in tal modo di cancellare l'impianto normativo esistente nella legislazione tunisina fondato sulla parità di genere e di cui la Tunisia vanta un primato nel mondo arabo fin dall’epoca di Habib Bourguiba.

 
Tawakkol Karman – Yemen
Nel 2011 ha ricevuto il premio Nobel per la Pace per “la sua battaglia non violenta per la sicurezza delle donne e per il loro diritto a partecipare alla costruzione della pace”. Durante le sommosse popolari nello Yemen Tawakkul Karman ha organizzato raduni di studenti nella capitale yemenita, ha guidato gli scontri  contro il dittatore ʿAlī ʿAbd Allāh Ṣāleḥ (poi dimessosi il 27.02.2012) ed è stata più volte arrestata. E’ tra le componenti di spicco del partito di opposizione Al-Islah (Congregazione Yemenita per la Riforma, affiliata ai Fratelli musulmani, e che dal 2002 fa parte dei Joint Meeting Parties, coalizione formata da partiti di opposizione, tra cui il Partito Socialista Yemenita e altri tre minori, per chiedere riforme, meno corruzione, e un governo più democratico). Nel 2005 ha creato il gruppo Ṣaḥafiyyāt bilā quyūd (Giornaliste senza catene) per difendere in prima istanza la libertà di pensiero e d'espressione.


 
Razan ZaitounehSiria
vincitrice del prestigioso Premio Anna Politkovskaya 2011, istituito nel 2007 dall'organizzazione RAR in WAR (Reach All Women in War) e destinato a una difensora dei diritti umani impegnata dalla parte delle vittime nelle zone di conflitto. Zaitouneh, 34 anni, giornalista e avvocata impegnata in favore dei diritti umani dal 2001, è stata tra le protagoniste delle prime manifestazioni contro il governo siriano prima di essere costretta a entrare in clandestinità per evitare l'arresto e la tortura. Ha monitorato e denunciato, per conto dei Comitati di coordinamento locali, le violazioni dei diritti umani perpetrate dalle forze di sicurezza siriane. Suo marito, Wa'el Hammada, è stato arrestato il 30 aprile 2011 ed è stato rilasciato il 1° agosto successivo dopo mesi di torture, in attesa del processo.

Razan Gazzawi - Siria
dal 2009, anima il blog razaniyyat e dalle pagine del suo blog ha più volte denunciato la repressione nel suo paese ad opera del governo siriano. Più volte arrestata oggi è costretta a nascondersi, mentre il marito e il fratello minore sono stati arrestati.








Nasrin Sotoudeh - Iran
avvocata, combatte da sempre contro le ingiustizie del regime del suo Paese, difendendo politici dell’opposizione e attivisti incarcerati, nonché i condannati a morte e le donne ingiustamente detenute. Dal 2010 è in carcere per scontare una condanna di 6 anni con l’accusa di propaganda contro il sistema e cospirazione volta a minare la sicurezza dello Stato. Recentemente è stata ricordata dalle cronache internazionali per lo sciopero della fame che ha iniziato dopo che le è stato imposto di poter vedere i propri figli solo dietro una vetrata. Firma l'appello di Amnesty International

                                                 

Amina Megheirbi – Libia
Eletta in parlamento alle ultime elezioni con The National Force Alliance è una delle le donne impegnate oggi in politica che la Libia ha visto crescere in modo esponenziale dopo la caduta del regime di Gheddafi. I seggi conquistati in parlamento dalle donne sono stati il 16,5%, un risultato straordinario se si considera l’eredità del regime durato più di 40 anni durante i quali le donne hanno sperimentato un grande isolamento e un ruolo di esclusione. Amina è professora associata presso l’Università di Bengasi, ha co-fondato il Centro Libico per la Democrazia e lo Stato di Diritto ed è membro della Piattaforma delle Donne Libiche per la Pace (LWPP) e del movimento Voce delle Donne Libiche VLW

mg




novembre 30, 2012

PALESTINA. Storico ingresso alle Nazioni Unite. Prime riflessioni




Una decisione storica e densa di importanti conseguenze sul piano della politica e del diritto  internazionale quella con cui l’Assemblea Generale ha votato ieri l’ammissione alle Nazioni Unite della Palestina come Stato osservatore approvando il progetto di risoluzione che le era stato presentato da numerosi Stati, per lo più facenti parte del così detto sud del mondo (Afghanistan, Algeria, Argentina, Bahrain, Bangladesh, Bolivia, Brazil, Brunei Darussalam, Chile, China, Comoros, Cuba, Democratic People’s Republic of Korea, Djibouti, Ecuador, Egypt, Guinea-Bissau, Guyana, Iceland, India, Indonesia, Iraq, Jordan, Kazakhstan, Kenya, Kuwait, Lao People’s Democratic Republic, Lebanon, Libya, Madagascar, Malaysia, Maldives, Mali, Mauritania, Morocco, Namibia, Nicaragua, Nigeria, Oman, Pakistan, Peru, Qatar, Saint Vincent and the Grenadines, Saudi Arabia, Senegal, Seychelles, Sierra Leone, Somalia, South Africa, Sudan, Tajikistan, Tunisia, Turkey, United Arab Emirates, Uruguay, Venezuela (Bolivarian Republic of), Yemen, Zimbabwe and Palestine).

Schiacciante la maggioranza dei paesi che hanno votato a favore. Stati Uniti e Israele isolati.

La risoluzione (A/RES/67/19) è stata adottata con una schiacciante maggioranza: 138 gli Stati (asiatici, africani, sudamericani, europei) che hanno votato a favore su 193 facenti parte dell’ONU, tra questi 15 paesi dell’Unione Europea a 27, tra cui i paesi rivieraschi di Italia, Francia e Spagna; contrari solo 9 Stati (Stati Uniti, Israele, Canada, Repubblica Ceca, Isole Marshall, gli Stati federati di Micronesia, Nauru, Panama, Palau); 41 gli astenuti tra cui Germania e Gran Bretagna (vedi nel dettaglio i risultati delle votazioni). Ciò mette in luce un cambiamento dei rapporti di forza nella politica internazionale dopo la fine delle dittature neo-coloniali spazzate via delle rivoluzioni arabe, e dopo l’affacciarsi in tutto il Sudamerica di nuove formazioni politiche che si sono affrancate dallo storico predominio nordamericano.


Perché semplice Stato osservatore e non Stato membro a pieno titolo?

Poiché ai sensi dell’art. 4 della Carta istitutiva delle Nazioni Unite l’ammissione di uno Stato come membro da parte dell’Assemblea Generale avviene solo su proposta del Consiglio di Sicurezza, presupposto quest’ultimo per il momento non realizzabile stante la posizione assunta dagli Stati Uniti che oggi hanno votato contro la risoluzione e che nel Consiglio di Sicurezza vantano (insieme a Russia, Cina, Francia e Gran Bretagna, cioè le cinque potenze uscite vincitrici della seconda guerra mondiale), come è noto, il diritto di veto.
Peraltro, nella risoluzione approvata oggi l’Assemblea Generale esprime l'auspicio che il Consiglio di Sicurezza voglia considerare favorevolmente la domanda già presentata da parte dello Stato della Palestina per l'ammissione come membro a pieno titolo delle Nazioni Unite (vedi sotto il punto 3)




Importante il contenuto della risoluzione: Palestina Stato indipendente e sovrano, Israele paese occupante.

Il testo della risoluzione contiene affermazioni di notevole importanza sul piano del diritto internazionale anche per le conseguenze che ne possono scaturire: riconosce la Palestina come Stato indipendente e sovrano, ribadisce il suo diritto all’integrità territoriale, qualifica Israele come paese occupante e sottolinea la necessità che quest’ultima si ritiri dai territori occupati e cessi tutte le attività di colonizzazione.
Questi al riguardo i punti salienti della risoluzione (v. il testo integrale in inglese e spagnolo)
“L’Assemblea Generale
(…omissis)
·         Riaffermando il principio, sancito dalla Carta, della inammissibilità dell'acquisizione di territori con la forza;
·         Riaffermando anche le sue risoluzioni 43/176 del 15 dicembre 1988 e 66/17 del 30 novembre 2011 e tutte le risoluzioni pertinenti in merito alla soluzione pacifica della questione palestinese le quali, tra l'altro, sottolineano la necessità del ritiro di Israele dai territori palestinesi occupati dal 1967, compresa Gerusalemme Est, la realizzazione dei diritti inalienabili del popolo palestinese, in primo luogo il diritto all'autodeterminazione e il diritto al suo Stato indipendente, una giusta soluzione del problema dei profughi palestinesi in conformità con la risoluzione 194 ( III) dell'11 dicembre 1948 e la completa cessazione di tutte le attività di colonizzazione israeliana nei Territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme Est;
·         Ribadendo la sua risoluzione 58/292 del 6 maggio 2004, affermando, tra l'altro, che lo stato del territorio palestinese occupato dal 1967, compresa Gerusalemme Est, rimane uno stato di occupazione militare e che, in conformità del diritto internazionale e delle pertinenti risoluzioni delle Nazioni Unite, il popolo palestinese ha diritto all'autodeterminazione e alla sovranità sul suo territorio;
(…omissis)
1.      Ribadisce il diritto del popolo palestinese all'autodeterminazione e all'indipendenza nel suo Stato di Palestina nel territorio palestinese occupato dal 1967;
2.      Decide di accordare alla Palestina lo status di Stato osservatore non membro presso le Nazioni Unite, fatti salvi i diritti acquisiti, i privilegi e il ruolo dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina nelle Nazioni Unite in qualità di rappresentante del popolo palestinese, in conformità delle pertinenti risoluzioni ;
3.      Esprime l'auspicio che il Consiglio di Sicurezza voglia considerare favorevolmente la domanda presentata il 23 settembre 2011 da parte dello Stato della Palestina per l'ammissione a pieno titolo delle Nazioni Unite.
4.      Afferma la sua determinazione a contribuire alla realizzazione dei diritti inalienabili del popolo palestinese e al raggiungimento di una soluzione pacifica in Medio Oriente che ponga fine all'occupazione iniziata nel 1967 e che renda possibile la visione di due Stati: con uno Stato di Palestina indipendente, sovrano, democratico, transitabile e contiguo che coesista in pace e sicurezza la fianco di Israele sulla base dei confini precedenti al 1967;
5.      (…omissis)
6.      Esorta tutti gli Stati, le agenzie specializzate e le organizzazioni del sistema delle Nazioni Unite a continuare a sostenere ed aiutare il popolo palestinese nella realizzazione iniziale del suo diritto all'autodeterminazione;
7.      (…omissis)”

Le conseguenze del riconoscimento della Palestina come Stato e della sua ammissione all’ONU  sul piano del diritto internazionale (Tratto da El Pais).

Tra tutte le conseguenze la più importante è la possibilità per l'Autorità palestinese di deferire Israele al Tribunale Penale Internazionale per presunto genocidio, crimini di guerra o crimini contro l'umanità commessi dalle autorità israeliane.
Il "trasferimento da parte di una potenza occupante di parte della propria popolazione civile nel territorio che occupa" è definito p.es. come un crimine di guerra. Ciò che Israele potrebbe aver commesso creando insediamenti ebraici in Cisgiordania e anche nel settore orientale e arabo di Gerusalemme.
Tre anni fa l'Autorità Palestinese chiese al Tribunale Penale Internazionale di aprire un’ inchiesta per  presunti crimini di guerra commessi da Israele durante la sua offensiva militare Piombo Fuso a Gaza (2008-2009), ma il procuratore sostenne che prima di prendere in considerazione la richiesta gli organismi competenti dell'ONU avrebbero dovuto determinare se la Palestina era uno Stato.
Se si confermasse che il presidente palestinese Yasser Arafat è stato avvelenato, lo Stato palestinese potrebbe chiedere al procuratore del Tribunale Penale Internazionale di aprire un'inchiesta sull'assassinio. Il corpo di Arafat, morto nel 2004, è stato appena riesumato a Ramallah (Cisgiordania).
Con il voto odierno la Palestina non può votare all'Assemblea Generale e presentare candidati per gli uffici delle Nazioni Unite, tuttavia può aderire alle principali convenzioni internazionali e aderire alle agenzie delle Nazioni Unite, come la FAO, l'Organizzazione internazionale del lavoro l'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, l'Organizzazione Mondiale della Sanità e così via
Il fatto di votare a favore della Palestina e di riconoscerla come Stato implica, per paesi come ad. es. la Spagna, la Francia o l'Italia, la posssibilità di aprire relazioni diplomatiche col nuovo Stato, trasformare in Ambasciate le delegazioni tuttora esistenti e riconoscere i passaporti rilasciati dall’autorità palestinese.

mg


PALESTINA. Capire la questione palestinese, pagina nera del colonialismo





“Nei primi decenni del secolo scorso inglesi e francesi erano i padroni indiscussi del Medio Oriente. Stati come la Siria e il Libano sono nati sotto l'egida coloniale francese mentre l'Iraq, la Palestina e la Giordania sono stati letteralmente creati dalla Gran Bretagna e sottoposti al suo controllo grazie all'istituto giuridico del 'mandato', lo strumento di legalizzazione del colonialismo inventato dalla Società delle Nazioni. Da loro dipendeva la definizione dei confini degli Stati, la designazione dei leader e delle élite poste ai vertici del potere statale, la modellazione dei regimi politici, con la preferenza normalmente accordata alla monarchie ereditarie. Inglesi e francesi decidevano, con il consenso degli Stati Uniti, sulla allocazione delle risorse naturali della regione, in particolare delle riserve petrolifere che allora cominciavano ad essere scoperte nel Golfo Persico e nel distretto settentrionale iracheno di Mosul. La forza delle due potenze coloniali era tale che anche i governi dei paesi formalmente indipendenti - la Turchia, l'Egitto, la Persia - erano costretti a riconoscere i nuovi confini statali e ad accettare il nuovo ordine mandatario” (così Danilo Zolo, Le radici coloniali del medio oriente).

Alla fine della prima guerra mondiale i territori arabi appartenenti all’Impero Ottomano, uscito sconfitto dalla guerra, furono suddivisi tra Francia e Gran Bretagna mediante il sistema dei mandati istituito dalla Società delle Nazioni. La Palestina fu affidata alla Gran Bretagna (Accordo di Sykes-Picot 1916 ). Il mandato britannico durò dal 1920 al 1948.

Dopo la seconda guerra mondiale, il 29 novembre del 1947, l'Assemblea Generale delle neonate Nazioni Unite (26 giugno 1945) che contavano allora solo 56 stati membri, stabiliva la cessazione del mandato britannico sulla Palestina e adottava la risoluzione n.181 con cui veniva approvato un piano di spartizione del territorio palestinese tra uno stato ebraico (56% del territorio) e uno stato arabo (43%). Dopo aver progettato di costituire la sede dello stato ebraico in Argentina, in Sudafrica o a Cipro la scelta cadde sulla Palestina, in quanto, si disse (Israel Zangwill), “era una terra senza popolo per un popolo senza terra”.

In realtà non era così. In quel momento in Palestina era presente infatti una popolazione autoctona di circa un milione e mezzo di persone, mentre gli ebrei, nonostante l’imponente flusso migratorio del dopoguerra, superavano di poco il mezzo milione. E così, mentre nel territorio assegnato allo Stato arabo gli ebrei erano quasi del tutto assenti, in quello attribuito allo Stato ebraico gli arabi costituivano la metà della popolazione totale e possedevano ancora la maggior parte della terra. Il piano venne quindi  respinto dai paesi arabi come una violazione del principio di autodeterminazione dei popoli sancito dalla Carta delle Nazioni Unite e diede subito inizio ai conflitti che tuttora persistono, conflitti durante i quali avvenne la graduale erosione anche di quella parte di territorio che era stato assegnato alla popolazione araba dalla risoluzione n.181 da parte delle forze militari dell’autoproclamatosi Stato di Israele (14 maggio 1948), assai meglio armate e equipaggiate.

Durante la guerra arabo-israeliana del 1948 le forze israeliane occuparono ampie zone del previsto Stato arabo. Israele passò così dal 56% dei territori  che le erano stati assegnati dalla risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, al 78%. La maggior parte della popolazione araba della Palestina fu trasformata dal conflitto in una massa di profughi: su quasi 900.000 arabi che nel 1947 risiedevano nell'area poi acquisita da Israele, circa 750.000 furono costretti alla fuga, trovando poi rifugio in Cisgiordania, a Gaza e nei paesi vicini.

A conclusione della così detta "guerra dei sei giorni" del 1967, Israele occupò anche il restante 22% del territorio palestinese, annettendosi  illegalmente Gerusalemme-est e imponendo un regime di occupazione militare agli oltre due milioni di abitanti della striscia di Gaza e della Cisgiordania. Il tutto accompagnato dalla sistematica espropriazione delle terre, dalla demolizione di migliaia di case palestinesi, dalla cancellazione di interi villaggi e dall’insediamento di innumerevoli colonie.

Come è noto, complessivamente non meno di 300 mila coloni israeliani oggi risiedono nei territori occupati, in residenze militarmente blindate, collegate fra loro e con il territorio dello Stato israeliano attraverso una rete di strade (le famigerate by-pass routes) interdette ai palestinesi e che frammentano e lacerano ulteriormente ciò che rimane della loro patria.

A tutto questo si aggiunge la costruzione del 'muro illegale' in Cisgiordania, destinato a concentrare la popolazione palestinese in aree territoriali frammentate e dislocate, a rendere irreversibile l'insediamento coloniale realizzato da Israele in territorio palestinese e ad appropriarsi di nuove terre e riserve d'acqua.




Le Nazioni Unite hanno ripetutamente statuito l'illegittimità delle azioni compiute da Israele come contrarie al diritto internazionale guarda l'elenco 
In particolare, con la risoluzione n.242 del 22 novembre 1967, il Consiglio di Sicurezza, in base al principio secondo cui l’acquisizione di territori attraverso la guerra va ritenuto inammissibile dalla comunità internazionale richiedeva a Israele il ritiro dai territori occupati nella guerra dei sei giorni del 1967.
Il 9 luglio 2004, la Corte Internazionale di Giustizia, in risposta al parere che gli era stato sottoposto dall'Assemblea Generale, affermava che: « L'edificazione del Muro che Israele, potenza occupante, è in procinto di costruire nel territorio palestinese occupato, ivi compreso l'interno e intorno a Gerusalemme Est, e il regime che gli è associato, sono contrari al diritto internazionale».
Il 20 luglio 2004, l'Assemblea Generale, dopo aver preso atto del parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia adottava la risoluzione ES-10/15 con cui «esige che Israele, potenza occupante, rispetti i suoi obblighi giuridici come essi sono enunciati nel parere consultivo».
Israele, in dispregio agli ordini di giustizia, non ha mai ottemperato alle risoluzioni adottate nei suoi confronti dagli organi che la comunità internazionale, di cui fa parte, ha istituito per garantire la pace e il rispetto delle norme internazionali.

mg
  

novembre 20, 2012

PALESTINA. Striscia di Gaza, operazione "Pilastro di difesa", i raid israeliani compiono strage di bambini



E’ strage di bambini nella Striscia di Gaza colpita da sei giorni dai raid israeliani dell’operazione “Pilastro di difesa”.
Secondo l'UNICEF alle 15 di lunedì risultavano almeno 18 i piccoli palestinesi che hanno perso la vita e 252 quelli rimasti feriti. La preoccupazione dell'organizzazione delle Nazioni Unite che si occupa di infanzia è massima:  «A Gaza desta allarme soprattutto la situazione sanitaria - fa sapere l'Unicef Italia in una nota -: gli ospedali sono sovraffollati a causa dell'afflusso continuo di feriti e le scorte di alcuni farmaci si sono rapidamente esaurite. La nostra Supply Division di Copenhagen sta predisponendo l'invio di scorte di emergenza per 14 farmaci di base». Ma l'emergenza non è solo quella medica. «La chiusura del  passaggio di transito di Kerem Shalom tra Israele e la Striscia di Gaza provocherà a breve una penuria di carburante - sottolinea ancora l'organizzazione umanitaria , con gravi conseguenze sul funzionamento dei servizi essenziali già a fine novembre, quando saranno esaurite le scorte di combustibile, circa 111 mila litri, finanziate da noi e da Human Rights First, una ong nostra partner». Il bilancio dei danni e delle vittime purtroppo viene aggiornato ad ogni ora e si fa sempre più pesante. Nei sei giorni dell’operazione israeliana “Pilastro di difesa” sono centinaia le vittime accertate.


Adriana Zega , una dei cooperanti rimasti bloccati a Gaza negli ultimi giorni, che ha da poco lasciato la Striscia riferisce: "Situazione indescrivibile, siamo di fronte ad attacchi deliberati nei confronti dei civili, ora servono aiuti per i feriti" (v. il reportage). Tra i bambini morti sei facevano parte della famiglia Aldalu sterminata  nel rione Nasser di Gaza City nel bombardamento della palazzina in cui abitava.

Anche le navi da guerra israeliane hanno bombardato la Striscia nelle ore notturne, mentre il primo ministro Benyamin Netanyahu si dice pronto ad ''estendere le operazioni'' militari anche da terra.

"La situazione è estremamente critica. Ogni 10 minuti c’è un attacco aereo, le strade sono completamente vuote  e la gente non si può muovere. Il Ministero della Sanità ha dichiarato che più di 165 tipi di farmaci e materiale medico si stanno esaurendo in tutti i centri medici della Striscia. Le cliniche della Palestinian Medical Relief Society lavorano a pieno ritmo, ma se gli attacchi continueranno non sarà possibile prestare assistenza a tutti i feriti, anche per scarsità di risorse finanziarie. Sulla popolazione di Gaza, chiusa in un territorio da dove è impossibile scappare, incombe una pesantissima crisi umanitaria se gli attacchi non cesseranno al più presto”. Così Aed Yaghi, Direttore di Palestinian Medical Relief Society di Gaza, partner locale dell'organizzazione Terre des Hommes.

La Striscia di Gaza viene definita da Noam Chomsky come "la prigione a cielo aperto più grande del mondo" 
(v.traduzione italiana e testo originale dell'articolo). 

Nella Striscia, che rappresenta l’unico sbocco al mare dei Territori Palestinesi, in poche decine di chilometri quadrati vivono più di un milione e mezzo di palestinesi (per lo più profughi dalle occupazioni israeliane del 67). E’ confinante via terra con Israele che controlla tutti i varchi di accesso e di uscita e a sud con l’Egitto. L’unico accesso alla Striscia che non sia soggetto al controllo di Israele è quindi il valico di Rafah, al confine con l’Egitto, oggi aperto, ma un tempo chiuso da Mubarak. Tuttavia questo valico non porta alla Cisgiordania palestinese, per cui il territorio della Palestina resta letteralmente spaccato in due. Il governo israeliano assedia la Striscia impedendo militarmente ogni contatto tra Gaza e il mondo esterno sia via terra, sia via mare. Dal mare è infatti impossibile arrivare, a causa del blocco navale imposto dalla marina da guerra israeliana. Nel porticciolo di Gaza non si può attraccare proveniendo da acque internazionali, le miglia marine rese disponibili ai pescatori palestinesi sono meno della metà di quelle previste dalle leggi internazionali e ogni tentativo dei pescatori palestinesi di superarle viene respinto dalla marina israeliana. Come si ricorderà nel maggio del 2010 la spedizione umanitaria per rompere l'assedio di Gaza della Freedom Flotilla  si concluse con l’uccisione di nove attivisti turchi da parte delle truppe d’assalto israeliane. 

mg
  

ottobre 31, 2012

NIGERIA, Delta del Niger, quattro contadini portano la Shell davanti ai giudici dell’Aja per disastro ambientale









Il prossimo 30 gennaio il tribunale civile dell’Aja si pronuncerà nella causa intentata da quattro contadini nigeriani contro la multinazionale anglo-olandese Royal Dutch Shell. L’accusa è di aver inquinato campi coltivati e corsi d’acqua a causa di fuoriuscite di petrolio.  “Hanno ucciso la pesca e distrutto il bosco, il mio paese è adesso una terra fantasma” dice Eric Dooh, abitante di Goi, uno dei villaggi più colpiti.

E’ il primo caso che vede un processo realizzarsi a carico di un’impresa con sede centrale in Europa per contaminazione prodotta in un paese terzo. Un precedente che potrebbe facilitare l’avvio di altri processi contro altre industrie petrolifere che contaminano fuori del proprio territorio.

Il Niger è il terzo fiume dell’Africa e il suo delta occupa 70.000 kilometri quadrati. Con 31 milioni di abitanti è tra le riserve naturali più ricche di flora e fauna del continente africano. Tuttavia a partire dal 1958 vi ha cominciato ad operare l’industria petrolifera dopo la scoperta di ingenti giacimenti di petrolio da parte dell’allora Shell British Petroleum (attuale Royal Dutch Shell). Oggi i settori del gas e del petrolio costituiscono il 79,5% del bilancio del paese, una ricchezza che però non arriva alla popolazione. Secondo il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo oltre il 60% della popolazione locale continua infatti a dipendere per il suo sostentamento dall’ambiente naturale e vive di pesca ed agricoltura, attività rese oggi pressoché impossibili dalle devastazioni dell’acqua e della terra prodotte dalla scriteriata attività delle compagnie petrolifere.

Il rapporto del Programma delle Nazioni Unite per l'Ambiente, basato su 14 mesi di ricerche e pubblicato nell’agosto del 2011, illustra il devastante impatto dell’inquinamento prodotto da mezzo secolo di attività petrolifera sulla vita della popolazione del Delta del Niger.

L’inquinamento -si legge nel rapporto- è penetrato molto in profondità, più di quanto si poteva immaginare, ed il sottosuolo è avvelenato anche in zone che in superficie sembrano pulite; almeno 10 comunità bevono acqua contaminata da idrocarburi e in una comunità la popolazione prende l’acqua da pozzi contaminati con benzene, noto cancerogeno, ad un livello che supera di 900 volte quella massima stabilita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità; l’impatto del petrolio sulla vegetazione di mangrovie è stato disastroso, ha lasciato le piante prive di foglie e steli, con radici rivestite di uno strato di sostanze bituminose spesso anche un centimetro e più; le perdite di petrolio causano frequenti incendi che distruggono la vegetazione e la compromettono anche per gli anni a venire; l’habitat dei pesci è stato distrutto e molti pescatori e chi si dedicava alla pisci-cultura è stato rovinato da una cappa galleggiante e permanente di olio; la contaminazione dell’aria derivante dalle operazioni dell’industria petrolifera colpisce circa un milione di persone…Il rapporto conclude che per pulire l’area saranno necessari 25 o 30 anni e almeno un miliardo di dollari che dovrebbero essere erogati dal governo e dalle compagnie petrolifere, entrambi sotto accusa: il primo per l’inadeguatezza della normativa in materia di attività estrattiva e le seconde per l’inadeguatezza di controlli e manutenzione delle infrastrutture petrolifere.
Dell’industria petrolifera nel Delta del Niger fanno parte oltre alla Royal Dutch Shell e al governo della Nigeria, altre succursali di compagnie multinazionali quali Eni, Chevron, Total ed Exxon Mobil.

mg

ottobre 19, 2012

PAKISTAN: "Allah salvi Malala", il paese unito contro la violenza talebana




“Dateci penne oppure i terroristi metteranno in mano alla mia generazione le armi”.

Questa frase è di Malala Yousufzai, 14 anni, la giovanissima studentessa a cui un gruppo di talebani ha sparato alla testa il 9 ottobre scorso all’uscita da scuola. Il fatto è avvenuto nella valle dello Swat, nel nord-ovest del Pakistan, regione ancora controllata dai talebani.
Malala è stata presa di mira dai talebani a causa della sua battaglia a favore dell'istruzione per le ragazze. Da quando aveva 11 anni gestisce un blog su internet in cui denuncia i soprusi dei talebani nella valle dello Swat soprattutto nei confronti delle donne ed è diventata un simbolo per tante donne e bambine nel Pakistan delle aree tribali.
Lo scorso anno aveva ottenuto il primo premio per la pace dal governo pakistano.
Dopo l’attentato Malala è stata ricoverata d’urgenza a Mingora, la città principale dello Swat, e quindi  trasportata con un elicottero governativo messo a disposizione dal premier pakistano Raja Pervez Ashraf nell’ospedale di Peshawar. Da lunedì è stata trasferita con un aereo-ambulanza degli Emirati Arabi nell'ospedale Queen Elizabeth a Birmingham, nel Regno Unito. Le condizioni di Malala migliorano. I medici  non ritengono che abbia subito danni cerebrali e pensano che abbia buone  probabilità di recupero.
Il governo del pakistano ha condannato l’attentato compiuto e rivendicato dai talebani ed ha fissato una taglia per la cattura dei responsabili. Centinaia sono stati finora gli arresti.
Intanto una grande campagna di solidarietà e di protesta contro la violenza dei talebani ha scosso l'intero Pakistan. Venerdì nelle moschee si è pregato “Allah salvi la giovane Malala” e il paese si è fermato per osservare un minuto di silenzio.
Malala ha davvero vinto la sua battaglia.
Nel mondo 39 milioni di ragazze, tra gli 11 e i 15 anni, ovvero una su tre, non sono scolarizzate. Soggette a subire una doppia discriminazione, di genere e di età, sono il gruppo più marginalizzato del mondo. Molte di loro subiscono costrizioni e abusi, vengono obbligate a sposarsi con degli uomini magari anche molto più grandi di loro. Vivono una realtà fatta di isolamento e soffrono violenze in famiglia. Per questo le Nazioni Unite anno indetto una Giornata Internazionale delle Bambine che a partire da quest’anno viene celebrata l'11 ottobre.

mg

ottobre 05, 2012

TUNISIA, il caso della ragazza violentata accusata di oltraggio al pudore. La collera della popolazione e le scuse del presidende della Repubblica Marzouki







Il 26 settembre a Ain Zaghwan, sobborgo balneare e residenziale tra Cartagine e Rawad, una ragazza è stata violentata da due agenti di polizia in servizio, mentre il loro collega neutralizzava il compagno della ragazza e lo ricattava. La coppia era stata sorpresa flirtare e perciò la ragazza violentata è stata denunciata dagli stessi funzionari di polizia per oltraggio al pudore e alla morale. Leggi l'articolo di Abdelwahab Meddeb: viol a Tunis 

Diverse organizzazioni, tra cui l' Asssociazione tunisina delle donne democratiche, la Lega tunisina per la difesa dei diritti umani e del Consiglio nazionale per le libertà, hanno fermamente reagito di fronte a questo episodio di estrema gravità che tenta di trasformare una vittima in imputato all'evidente scopo di dissuaderla dal presentare una denuncia nei confronti degli aggressori.
L'episodio ha suscitato sdegno fra l'interna popolazione e una grande manifestazione di protesta si è svolta davanti al tribunale il 2 ottobre, giorno in cui era previsto l'interrogatorio della ragazza.
Al termine dell'udienza l'avvocata della ragazza, Monia Bousselmi, ha dichiarato di avere fiducia nella giustizia e di essere ottimista che l’accusa verrà archiviata. L'avvocata ha poi sottolineato la “responsabilità storica” che ha il giudice investito del caso, dato che "il mondo intero attende la sua decisione che sarà decisiva per l’instaurazione dello stato di diritto in Tunisia".
Il Presidente della Repubblica, Marzouki, ha ricevuto la ragazza e il suo fidanzato per presentare le scuse del governo tunisino per la violenza subita ed ha fermamente condannato l'episodio affermando che esso getta disonore sui loro autori, mentre ha salutato le forze di sicurezza che hanno rifiutato di coprire il comportamento dei colleghi. Il Presidente ha quindi assicurato che seguirà da vicino questo caso in modo che siano garantiti il rispetto dei diritti e la fiducia da parte dei tunisini nelle loro istituzioni statali.

mg