novembre 30, 2013

MALI. Le verità della guerra


Sono trascorsi più di dieci mesi dall'inizio di questa guerra "umanitaria" e a causa di un inquietante blackout dell'informazione poco si sa su che cosa sta succedendo sul campo di battaglia, salvo che ha già prodotto morte, centinaia di migliaia i profughi e aggravato le condizioni di vita miserabili del popolo maliano nonché  dei paesi vicini costretti ad accogliere i rifugiati, in particolare la Mauritania.






La barbara uccisione di due giornalisti francesi, Ghislaine Dupont e Claude Verlon, avvenuta il 2 Novembre scorso nel Nord del paese, ha riportato per un momento l’interesse dei media su questa guerra in cui la verità pare destinata a restare nascosta e il diritto all'informazione sconfitto.

AFRICANISTAN

Iniziata unilateralmente dalla Francia l’11 gennaio scorso con l’operazione Serval la guerra aveva ufficialmente l’obiettivo “umanitario” di rispondere alla richiesta di intervento da parte del Governo del Mali (governo peraltro provvisorio a seguito del colpo di stato militare del marzo 2012) per far fronte alla possibile avanzata di gruppi islamici operanti nel nord del paese che avevano preso il controllo dell’Azawad, regione dichiarata indipendente nell’aprile del 2012  dal movimento indipendentista MNLA (Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad) dei Tuareg. Un gruppo etnico di origine berbera che costituisce il 6% della popolazione del Mali e che da anni si batte per ottenere condizioni di vita più degne e contro l’impatto devastante per l’ambiente causato dall’estrazione di Uranio nella regione. 
Di fatto l’Azawad in cui operano tali gruppi è una regione strategica ed estremamente importante per la Francia in quanto situata a nord del paese in prossimità di Arlit, città del Niger in cui opera la società francese AREVA per l’estrazione dell’Uranio, minerale da cui dipende la produzione dell’energia nucleare così come il programma di armamenti nucleari francesi.
Peraltro così giustificava la necessità dell'intervento militare l’economista e banchiere francese Jacques Attali in un articolo del maggio del 2012: “Non possiamo essere indifferenti davanti alla catastrofe umanitaria che si annuncia... perché questa regione può diventare un avamposto per la formazione di terroristi e kamikaze che presto cominceranno ad aggredire gli interessi occidentali, sia nella regione, sia, servendosi di numerosi canali di accesso, in Europa. Per ora sono poche centinaia: ma se non si interviene, saranno presto diverse migliaia, convenuti dal Pakistan, dall'Indonesia e dall'America Latina. E i giacimenti di uranio del Niger, essenziali alla Francia, sono lì a due passi». 

Un intervento quindi quello della Francia che sembra ricalcare le orme dell’azione internazionale che l'aveva vista in prima fila in Libia nel 2011 a difendere i suoi interessi neo-coloniali con la cosiddetta “Françafrique”. Del resto la guerra in Libia, o almeno il suo epilogo, costituisce l’antefatto di questa guerra per il peso e gli stretti legami che il governo libico (Gheddafi) aveva con i paesi subsahariani e con gli stessi gruppi ribelli e per le conseguenze che la destabilizzazione del paese, una volta concluso il conflitto, ha prodotto sul Mali, da considerarsi "vittima collaterale del conflitto libico" (così Aminata Traoré). Di fatto poi gli arsenali del conflitto libico divenuti privi di controllo hanno finito per armare i gruppi contro cui questa guerra viene condotta.

Presentata inizialmente come “guerra lampo”, per l’importanza degli equilibri geopolitici e degli interessi commerciali che sono in gioco (l’intera regione che abbraccia il nord del Mali, Mauritania e Niger è stata definita un nuovo eldorado) non solo sembra destinata a durate ancora a lungo ma minaccia di ampliare il suo raggio di azione ben al di là dei confini del Mali, tanto che si parla di Africanistan.

Ciò sembra trovare conferma nell’adozione da parte dell’ONU nello scorso luglio di una tra le più importanti missioni di “peacekeeping” (MINUSMA) con la messa in campo di circa 12.000 uomini.
 La Francia, da parte sua, dopo aver comunicato per ben due volte il ritiro delle proprie truppe ha infine deciso di lasciare sul campo un contingente “su base permanente” come ha dichiarato il 5 aprile scorso Laurent Fabius, Ministro degli Esteri.


LE RADICI DEL CONFLITTO E IL LEGAME
CON LE CAUSE DI IMPOVERIMENTO DELL'AFRICA

Una popolazione di poveri nel "nuovo eldorado" saccheggiato da potenze straniere"

La compagnia petrolifera francese Total, ha definito la regione compresa tra Mauritania, Niger e Mali come un nuovo “Eldorado” per  la grande ricchezza del suo sottosuolo. La regione è  un importante snodo di passaggio di gas e petrolio; il Niger è quarto produttore mondiale di Uranio e la presenza di oro porta il Mali ad essere il terzo produttore africano e undicesimo mondiale. Una parte di Africa quindi dove si giocano grandi interessi occidentali e che, negli ultimi anni, è diventata anche di grande interesse economico di altre potenze, in particolare della Cina.
Ben poco di tali ricchezze arrivano però alla popolazione. Il Mali è alla 182° posizione su 186 paesi nell’ Indice dello Sviluppo Umano UNPD del 2013.

Le statistiche più recenti indicano che le donne mettono al mondo 6,5 figli, di cui uno su sei muore  prima di arrivare all’età di 6 anni; la morte per parto colpisce una donna su 200; 9 case su 10 non hanno elettricità, 19 su 20 non hanno la rete fognaria; tre quarti dei bambini che hanno più di  7 anni non frequentano la scuola.  Nell’ultimo decennio c’è stato un incremento continuo della disuguaglianza sociale, di quella regionale (le famiglie  di Gao, Timbuktu e Kidal della regione di Azawad) hanno la metà del reddito di quelle di Bamako) e della  crescita del numero di poveri.

"La miseria morale e materiale di giovani diplomati, di contadini, di allevatori e di altri gruppi vulnerabili costituisce il vero fermento di rivolte e ribellioni" (così Aminata Traoré)

  
Cittadini del grande Impero africano del Mali (dal XIII al XVII secolo) i maliani sono stati vittime del traffico di schiavi che ha alimentato le economie degli Europei nelle Americhe e per circa un secolo (1864-1960) sono stati sudditi dell'impero coloniale francese.

Paul Vigné d'Octon, medico della Marina che accompagnò nel 1898 una colonna di fanteria incaricata di consolidare il controllo francese sulla regione ha lasciato questo resoconto della presa di Sikasso (a sud est della capitale Bamako): “Tutti vengono catturati o uccisi. Tutti i prigionieri, circa 4.000 sono ammassati come in un gregge. […] Ogni europeo riceveva una donna che sceglieva […]. Sulla strada del ritorno, abbiamo fatto tappe di 40. km con i prigionieri. I bambini e tutti coloro che si stancano vengono uccisi con i calci dei fucili e con le baionette”.


Le conseguenze disastrose dei piani di aggiustamento strutturale

I programmi di aggiustamento strutturale (SAP) sono quei cambiamenti delle politiche economiche nazionali che il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e la Banca Mondiale impongono ai  paesi in via di sviluppo come condizione per ricevere finanziamenti o per ottenere tassi d'interesse inferiori sui finanziamenti in essere.
Una politica comunemente richiesta negli aggiustamenti strutturali riguarda la privatizzazione delle industrie e delle risorse di proprietà statale. Apparentemente, questa politica mira a incrementare l'efficienza e gli investimenti, nonché a diminuire la spesa pubblica. 
Si tratta di politiche che comportano, in nome della libertà di mercato e al fine di stimolare l'iniziativa e l'imprenditorialità, una drastica riduzione delle spese sociali e lo smantellamento delle industrie statali. Quasi ovunque vengono abbandonati gli esperimenti di collettivismo o di ''deconnessione'' dal mercato e si arriva quindi a uno sviluppo che finisce per rafforzare i vincoli con il Nord.

I critici (autorevoli come Joseph Stiglitzeconomista statunitense già Senior Vice President e Chief Economist della Banca Mondiale) hanno condannato le richieste di privatizzazione. Quando le risorse vengono trasferite a società straniere e/o a élite nazionali, l'obiettivo della pubblica prosperità è infatti rimpiazzato con l'obiettivo dell'accumulazione privata. Inoltre, le imprese di proprietà statale possono anche avere bilanci in perdita perché assolvono un ruolo sociale più ampio, come la fornitura di servizi pubblici capaci di garantire lo sviluppo socio economico delle fasce più deboli della popolazione e, quindi, in prospettiva, la crescita economica dell’intero paese. 

Di fatto i piani di aggiustamento strutturale hanno avuto conseguenze disastrose per il Mali, traducendosi nella privatizzazione massiccia delle aziende del paese a beneficio delle imprese multinazionali, in prima linea quelle francesi, e nel graduale impoverimento del paese. Ciò  ha fatto aumentare in modo esponenziale il peso del debito estero che gli aiuti finanziari dovevano invece ridurre.

Il debito estero che nel 1968 era di 55 miliardi Fcfa (vecchi franchi) nel 2005 era già salito a 1.766 miliardi.
mg


 

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