dicembre 30, 2016

MIGRAZIONI. Guerre e migrazioni. Di fronte a noi “caoslandia”. Un’analisi di Lucio Caracciolo.


In questo video Lucio Caracciolo, tra i più grandi esperti italiani di geopolitica, analizza con grande chiarezza i fenomeni sociali, demografici e ambientali che contribuiscono a generare i conflitti che portano alla decomposizione degli Stati in quella parte del “sud” del mondo che egli definisce “caoslandia”; fenomeni strutturali che producono i grandi movimenti migratori attualmente in corso con i quali dobbiamo abituarci a convivere. 




Fonte: Limes
Sul tema delle migrazioni vedi l'ultimo rapporto ACNUR del giugno 2016,

nonchè il nostro post sul rapporto ACNUR del giugno 2015.

Sul tema della guerra vedi il nostro post Africa e Medio Oriente, scenari di guerra.

mg

novembre 30, 2016

IRAN. Il poliedrico protagonismo delle donne. Scienziate, registe, scrittrici e... "centaure" alle gare di motocross.



Dalla rivoluzione Khomeinista  del 1979 la popolazione iraniana è praticamente raddoppiata raggiungendo oggi la cifra di 74 milioni. Ciò significa che due iraniani su tre sono giovani al di sotto dei 30 anni. L’85% di questi giovani ha studiato e in molti casi possiede un titolo di studio avanzato.

Frutto della trasformazione demografica è anche la massiccia presenza femminile nella società dove le donne hanno assunto ormai un ruolo da protagoniste.

Oggi il 66 per cento degli studenti universitari è costituito da donne e le donne sono presenti e operano in tutti i settori della società, nel mondo del lavoro (dirigono ospedali e giornali, lavorano come ingegneri dei cantieri di costruzione, sono a capo dei reparti femminili della polizia...), della cultura, dell’arte e, seppure ancora  limitatamente, della politica. All'aumento della partecipazione femminile ha contribuito il concetto del “chador lasciapassare”. Il chador non ha mai impedito il protagonismo delle donne in Iran, anzi.  Questa forma di abbigliamento dopo la rivoluzione del 1979 favorì l’emancipazione delle donne appartenenti alle classi popolari e rurali e agli ambienti tradizionalisti alle quali sarebbe stato vietato uscire di casa. Inoltre, durante la rivoluzione  molte donne progressiste cominciarono a farne uso come simbolo di protesta contro l’eccessiva occidentalizzazione del paese  voluta dallo scià Pahlavi che lo aveva proibito. Oggi a seconda della classe sociale e del livello culturale di appartenenza vi sono differenze nell'abbigliamento femminile: dallo chador ad uno spolverino con il foulard. 


Oggi in Iran ci sono circa 400 autrici e sono proprio le donne ad animare la sfera culturale della letteratura contemporanea.  A sottolinearlo è stata l'iranologa Bianca Maria Filippini nel corso di un seminario all'Iran Country Presentation alla Fiera di Roma.

Il 25% della produzione filmica iraniana è opera di donne contro un misero 4 per cento della realtà statunitense. Negli ultimi vent’anni il numero delle registe iraniane ha superato quello delle registe pro-capite degli altri paesi occidentali. Ne parla diffusamente Bianca Maria Filippini nella scheda “Il ruolo e l’immagine delle donne nel cinema iraniano” che si può leggere nel libro "Il protagonismo delle donne in terra d'Islam", recentemente pubblicato. L’autrice mette in rilievo la grande influenza che questo cinema al femminile ha nel creare una consapevolezza sulle questioni di genere. In particolare, per ciò che interessa l'aspetto di cui si dirà in seguito, si sofferma sul tema delle automobili che viene trattato da questo cinema al femminile (v. la regista Tahmineh Milani) come strumento di ribellione e come mezzo che può accelerare il cammino verso la libertà (fughe, inseguimenti, gare).


Oggi le donne in Iran guidano taxi, autobus, partecipano a campionati di corse automobilistiche e recentemente sono state ammesse a partecipare anche a gare di motocross, come ci informa Asia News nell'articolo che riportiamo qui sotto.

AsiaNewsLa Federazione dell’automobile e del motociclismo (Mafiri) della Repubblica islamica d’Iran ha aperto le porte ai centauri al femminile. Ora, infatti, anche le donne potranno partecipare alle gare di motocross, specialità - come molte competizioni motoristiche - finora riservate solo agli uomini. A suggellare la svolta è stato il presidente della Federazione sport motoristici iraniana Mahmoud Seydanlou, che ha presenziato a una esibizione di motocross tenuta nei giorni scorsi a Teheran e dedicata al solo “universo rosa”.
  
A margine della manifestazione Seydanlou ha sottolineato che la speranza è quella di “vedere donne iraniane partecipare al campionato nazionale”. Inoltre, questo primo passo potrebbe “aprire le porte del campionato mondiale” per le centaure iraniane con maggiore talento. 

“Vi è molto interesse - ha aggiunto il massimo dirigente degli sport motoristici della Repubblica islamica - da parte delle donne a partecipare a competizioni sportive. Per noi è motivo di soddisfazione compiere passi che permettano loro di praticare il loro sport preferito”. 
La gara evento di motocross al femminile ha avuto grande eco fra gli appassionati del settore del Paese. E ha catturato l’attenzione anche dei media mainstream che, di solito, sono restii a trasmettere competizioni in cui partecipano le donne. Tuttavia, la tv di Stato ha dedicato spazio alla giornata e celebrato le centaure che hanno affollato la pista e si sono sfidate a colpi di curve e salti. 

Fra le pioniere della competizione sulle due ruote al femminile vi è la 27enne Behnaz Shafiei, parte di un gruppo di giovani donne che - prime in assoluto - hanno ricevuto il permesso di fare pratica sui circuiti fuoripista. La giovane è anche la sola ad aver guidato bolidi su pista e aver praticato in modo professionale l’attività sportiva, sebbene finora in luoghi riservati. “Ci sono persone - aveva dichiarato in un’intervista al Guardian - che non credono una donna possa guidare una moto. Però in generale la gente è entusiasta e in gran parte orgogliosa” nel vederla guidare.

Inoltre, la giovane centauro rivendicava con forza la propria appartenenza alla Repubblica iraniana e, pur nutrendo il desiderio di partecipare a una gara, non avrebbe mai accettato di “andare all’estero” per competere: “Voglio rendere orgoglioso l’Iran, il mio Paese e mostrare che anche le donne iraniane possono praticare questo sport”.

mg

Per approfondire v. Felicetta Ferraro, "Una società in movimento"

Felicetta Ferraro è specializzata in studi storico-sociali sull’Iran. Ha insegnato storia dell’Iran presso IUO di Napoli ed è stata addetta culturale in Iran. Dirige la casa editrice “Ponte 33”, specializzata in letteratura contemporanea in Iran e Afghanistan. Ha vissuto in Iran a lungo in diversi periodi. È tra gli organizzatori del “Middle East Festival”.



settembre 29, 2016

ARABIA SAUDITA. "Il wahhabismo, la dottrina praticata in Arabia Saudita, è una “deformazione” dell’islam che porta all’estremismo e al terrorismo". Così le conclusioni del congresso di Grozny



In questo articolo , pubblicato da Asianews, il resoconto delle conclusioni del congresso. Più sotto alcuni cenni sul sistema teocratico dell'Arabia Saudita.



“La notizia è passata sotto silenzio, ma è foriera di importanti sviluppi: il wahhabismo, la dottrina alla base dell’islam praticato in Arabia saudita e finanziata in molte parti del mondo grazie a Riyadh, non fa parte del sunnismo. Esso sarebbe una “deformazione” dell’islam che porta all’estremismo e al terrorismo. È necessario perciò “un cambiamento radicale per poter ristabilire il vero senso del sunnismo”. In Arabia saudita si passa già al contrattacco nel timore che questo sia il primo passo per “mettere al rogo” il Paese e i suoi imam.
La stupefacente dichiarazione è emersa nel comunicato finale di un congresso tenuto a Grozny (Cecenia) il 25-27 agosto scorsi.  Il congresso ha radunato circa 200 dignitari religiosi islamici, dottori coranici e pensatori islamici da Egitto, Siria, Giordania, Sudan, Europa. Fra questi vanno citati personalità come il grande imam di Al-Azhar, Ahmed al-Tayeb; il gran Mufti d’Egitto, Cheikh Chawki Allam; il consigliere del presidente egiziano e rappresentante del Comitato religioso al parlamento del Cairo, Cheikh Oussama al Zahri; il gran Mufti di Damasco Abdel Fattah al Bezm; il predicatore yemenita Ali al Jafri; il pensatore Adnan Ibrahim e molti altri. Lo scopo dell’incontro era cercare di definire l’identità “delle genti del sunnismo e della comunità sunnita”, davanti alla crescita del terrorismo takfirista-wahhabita che pretende di rappresentare l’islam e che soprattutto si vuole affermare come il rappresentante legittimo del sunnismo.
Nel comunicato finale, i partecipanti hanno precisato che “le genti del sunnismo e coloro che appartengono alla comunità sunnita sono gli Ashariti e i Maatiriditi, sia a livello della dottrina che al livello delle quattro scuole della giurisprudenza sunnita, e anche i sufi, sia a livello di conoscenza che a quello della morale dell’etica”. Come si vede dalla lista delle “genti del sunnismo” viene escluso il wahhabismo salafita predicato dall’Arabia saudita. L’esclusione di questo ramo dell’islam – si spiega - è dovuto alla necessità di “un cambiamento radicale per poter ristabilire il vero senso del sunnismo, sapendo che questo concetto ha subito una pericolosa deformazione in seguito agli sforzi degli estremisti di svuotare il suo senso per impossessarsene e ridurlo alla loro percezione”. Una posizione così dura ed esclusiva non è nuova anche se è la prima volta che appare in modo esplicito la posizione anti-wahhabita. Il grande imam di Al Azhar, lo scorso anno, proprio alla Mecca, aveva domandato che si iniziasse una riforma dell’islam per escludere le interpretazioni fondamentaliste e i loro "concetti falsi e ambigui", oltre che violenti.
Le vie per riformare l’islam
Al congresso di Grozny sono emerse anche alcune indicazioni per correggere la piega attuale che pesa sull’islam. Si propone di creare una catena televisiva in Russia [in contrasto con al Jazeera] per “far giungere ai cittadini un messaggio veridico dell’islam e per lottare contro l’estremismo e il terrorismo”. Si raccomanda anche di istituire “un centro scientifico in Cecenia per sorvegliare e studiare i gruppi contemporanei… che permetterà di rifiutare e criticare in modo scientifico il pensiero estremista”. La proposta è che il centro venga chiamato col nome di “Tabsir” (chiaroveggenza). Si suggerisce pure di “ritornare alle scuole della grande conoscenza” (la prestigiosa Al Azhar, la Qarawiyinne e Zaytouna in Tunisia, la Hadermouth), escludendo le istituzioni religiose saudite, in particolare l’università islamica di Medina. Infine si mettono a disposizione delle borse di studio per coloro che sono interessati a studiare la sharia, cercando di contrastare i finanziamenti che l’Arabia saudita eroga in questo campo.
L’Arabia saudita al contrattacco
Il wahhabismo è nato nel XVIII secolo ed è una dottrina sunnita radicale e letteralista fondata da Mohammad ibn Abd al-Wahhab, e utilizzata dall’iniziatore del regno saudita, Mohammed bin Saoud. Esso propone l’uso della violenza contro tutti i nemici dell’islam, compresi i musulmani che non condividono quella interpretazione (takfirismo). L’Arabia saudita, soprattutto dagli anni ’70 in poi, ha lanciato campagne di proselitismo in Asia e in Africa (e in seguito anche in Europa) per diffondere tale interpretazione dell’islam, costruendo moschee e scuole coraniche, e inviando i suoi predicatori. La reazione dell’Arabia saudita non si è fatta attendere. Il giornale al-Manar (libanese) cita il lancio di una campagna mediatica senza precedenti che fa leva sul patriottismo, per difendere “l’attentato alla nostra nazione”. Si cerca di umiliare anche Ahmed al-Tayeb, ricordando che il grande imam di Al Azhar “si è abbeverato per molto tempo” della sapienza degli ulema sauditi” e ora “in alleanza con Putin… vuole escludere l’Arabia saudita dal mondo musulmano”. Il congresso di Grozny è bollato come “deludente” e il presidente ceceno Ramzan Kadyrov, che l’ha ospitato, è accusato di essere “un sufi delirante”. L’imam e predicatore della moschea del re Khaled a Riyadh ha commentato: “La conferenza della Cecenia ci deve servire da campanello d’allarme: il mondo sta per accendere il rogo per bruciarci”.
I commenti
Interrogato da AsiaNews sulla conferenza di Grozny, p. Samir Khalil Samir, gesuita e islamologo non nasconde la sua soddisfazione: “Finalmente! È un fatto davvero straordinario. L'Egitto sembra essere stato l'iniziatore. Comunque è finalmente l'applicazione della richiesta fatta nel dicembre 2014 dal presidente al-Sisi all'Università Al-Azhar del Cairo, che non aveva avuto nessuna applicazione finora". “E’ anche interessante – continua - il fatto che si sia tenuto a Grozny: una città islamica di meno di 300mila abitanti, capitale della Cecenia, facendo parte della Russia, di tendenza laica. Ma cosa più straordinaria è la costituzione di quest'assemblea, molti dei quali sono legati proprio al wahhabismo!” Agli occhi dei musulmani, forse proprio quest’ultimo aspetto rende meno credibile il “divorzio” fra sunnismo e wahhabismo. Kamel Abderrahmani, musulmano, linguista e studioso dell’islam, commenta ad AsiaNews: “Se si guarda bene e si analizza in modo minuzioso la corrente sunnita, non vedremo alcuna differenza fondamentale fra l’uno e l’altro. Malgrado il divorzio proclamato la settimana scorsa, io rimango fermo nel dire che la corrente sunnita e la corrente wahhabita sono identiche. La sola differenza sta nel nome”.
Bernardo Cervelliera da Asianews.it

Arabia Saudita e wahhabismo
Ibn Sa‛ud, Muhammad, fondatore della dinastia reale saudita, strinse nel 1744 con Abdel al-Wahhab, iniziatore del movimento fondamentalista islamico, un’alleanza per liberare con la forza delle armi saudite la Penisola arabica dalle influenze che corrompevano la religione, in cambio della legittimazione del primato della propria dinastia sulle altre tribù arabe. Lo Stato teocratico che ne derivò, basato sull’islam riformato, fu il modello dello Stato saudita moderno.
La forma di governo dell'Arabia Saudita è la monarchia assoluta, governata dai discendenti del sultano del Najd, ʿAbd al-ʿAzīz Āl Saʿūd (Dinastia Saudita) che nel 1924-1925, con l’appoggio britannico, mosse alla conquista del Hijaz assicurandosi il controllo dei luoghi santi della Mecca, e nel 1927 ottenne dalla Gran Bretagna l’indipendenza del regno (Trattato di Jedda). La scoperta nel 1938 di ingenti giacimenti petroliferi nel Najd,  sfruttati grazie ai capitali e ai tecnici americani, ha reso l’Arabia Saudita il principale produttore di greggio. L’Arabia saudita è ancora oggi il principale alleato mediorientale degli Stati Uniti. Enciclopedia Treccani.it (Dizionario-di-Storia).
Nel paese non esistono elezioni parlamentari né esistono partiti politici. Le leggi fondamentali del Regno, comprese quelle penali, si basano su quella islamica, la Sharīʿa.
A questo proposito è bene rilevare quanto il sistema penale dell’Arabia Saudita sia del tutto simile a quello del sedicente Stato Islamico (ISIS) (vedi l'articolo di Linkiesta).
Nel regno saudita le donne devono avere il consenso di un tutore di sesso maschile il "male guardian", che sia il padre, il fratello o un altro parente, per sposarsi, per ottenere il passaporto, per viaggiare all'estero, per affittare una casa e spesso anche per lavorare o studiare. Alle donne è fatto divieto di guidare.

agosto 28, 2016

SIRIA. 470mila vittime per un pugno di gasdotti



La Siria sta scomparendo a causa di una guerra che è costata più di 470mila vittime dall'inizio del conflitto (2011). In totale, ad oggi oltre l'11,5% della popolazione è morta oppure è rimasta ferita. La metà della popolazione è sfollata. Sono dati agghiaccianti che misurano la tragedia: 1,9 milioni di feriti, l'aspettativa di vita è passata dai 70 ai 55 anni. A fornire questo quadro è un rapporto del Syrian Centre for Policy Research .

Non sono però soltanto i bombardamenti e l'artiglieria a produrre tanta devastazione, ma anche la mancanza di cibo e medicinali, la fame e le malattie causate dall’embargo messo in atto dalla comunità internazionale (Europa compresa), embargo contro cui si sono levate le voci dell’intero mondo cristiano siriano (stop all'assedio del popolo siriano

Il tutto per un pugno di gasdotti: quattro giganteschi progetti che hanno scatenato la competizione globale delle principali potenze.

Qui sotto vi proponiamo l’articolo pubblicato lo scorso settembre dal sito ilprimatointernazionale.it in cui vengono elencati progetti e paesi competitori.

“Doha, Qatar, 12 set – Nel pieno delle crisi, soprattutto quelle che includono confronti armati e catastrofi umanitarie, è spesso facile dimenticare le ragioni che le hanno prodotte e ne sostengono gli sviluppi. Non fa eccezione quella siriana, dall’avvento dell’Isis estesa all’Iraq.

I fondamentali della tragedia che si protrae dal 2011 sono in realtà abbastanza evidenti: in fondo, si tratta di una competizione globale per il controllo delle vie del gas in cui non si è fatto risparmio dell’uso di alcun mezzo, per terribile che possa essere.

L’Unione Europea, in questo quadro, si configura come un attore relativamente passivo, in qualità di “cliente finale” del gas naturale, attualmente legata mani e piedi alla Russia anche in virtù della propria produzione rapidamente declinante, da quella un tempo ricca del Mare del Nord a quella già modesta ma significativa e oggi irrilevante dei campi dell’Adriatico.

Nel tentativo di diversificare gli approvvigionamenti, sia per ragioni strategiche alimentate da Washington, sia per motivi riconducibili ai legami sempre più stretti di Mosca con Pechino, e nella previsione di una crescita del proprio fabbisogno, che potrebbe essere anche priva di reale fondamento e comunque contraria agli stessi interessi europei, si sono trovati in competizione quattro giganteschi progetti.

Il primo di questi, che avrebbe legato ancora di più l’Europa alla Russia, era il South Stream, attraverso il Mar Nero e la Grecia, fatto fallire da Bruxelles sotto le pressioni americane (e con il succedaneo Turkish Stream già in grosse difficoltà).

Il secondo è il Nabucco Pipeline, dal Caspio e attraverso Armenia e Turchia, sponsorizzato da oltre-atlantico, che tuttavia prevede un investimento insostenibile finché sarà basato soltanto sui campi dell’Azerbaijan.

Il terzo è il Islamic Pipeline, o Gasdotto Islamico, dal sud dell’Iran (campo principale di South Pars, confinante con il North Field del Qatar), attraverso Iraq e Siria, in grado di raccogliere anche il gas qatariota ed eventualmente quello saudita prelevato in Qatar.

Il quarto è il Gasdotto Qatar-Turchia, attraverso Arabia Saudita, Giordania, Siria e Turchia, in grado di raccordarsi con il Nabucco e di raccogliere- a monte – anche il gas iraniano e – lungo il percorso – l’eventuale gas saudita.

Quale prima conseguenza, il gasdotto Nabucco ha bisogno, per la propria realizzazione a guida Usa, del gasdotto Qatar-Turchia, che a sua volta potrebbe convogliare in futuro anche l’eventuale gas saudita. Questa è l’unica opzione sostenuta da Washington, che realizzerebbe, direttamente e per interposti alleati di ferro, un controllo americano diretto su una fondamentale arteria di rifornimento per l’Europa.

Quale seconda conseguenza, la realizzazione del Gasdotto Islamico, alternativo a quello Qatar-Turchia, oltre a tagliare fuori l’insignificante Nabucco, lascerebbe nella mano iraniana alleata della Russia la fondamentale gestione a monte, e alla Siria, alleata – sotto il governo di Bashar El-Assad, sia dell’Iran che della Russia, il controllo della tratta finale prima del Mediterraneo.

Quale terza conseguenza, in ragione dei ricchissimi diritti di transito, all’Iraq converrebbe decisamente la realizzazione del gasdotto Islamico proveniente dall’Iran (sciita, come la maggioranza degli iracheni e sempre più alleato di Baghdad), mentre ad Ankara converrebbe la realizzazione del gasdotto Qatar-Turchia, doppiamente in quanto questo si porterebbe dietro anche il Nabucco e il suo migliaio di chilometri di passaggio sul territorio turco.

Il rifiuto della Siria, tra il 2010 e il 2011, di consentire il passaggio sul proprio territorio del gasdotto Qatar-Turchia è da solo del tutto sufficiente a spiegare le origini del tentativo di sovvertimento del regime di Assad, al quale non possono essere imputate persecuzioni o anche discriminazioni etniche o religiose, né una malagestione dell’economia interna di natura socialista. (v.anche EL PAIS. La guerra de gasoductos que se esconde tras el conflicto sirios). 

Così come questa mortale competizione spiega il sostegno ai tagliagole del cosiddetto Esercito libero siriano, ad Al-Nusra (Al-Quaida in Iraq e Siria) e infine all’Isis da parte degli Stati Uniti, degli Stati del consiglio di cooperazione del golfo (Gcc) dominato da Arabia Saudita e Qatar, con la partecipazione più defilata della Giordania e quella invece sempre più diretta di Israele, di fatto alleato del Gcc oltre che ovviamente degli Usa, infine della Turchia anche col doppio scopo di colpire i Curdi.

Al contrario, il coinvolgimento crescente dell’Iran a sostegno del legittimo governo siriano, sia direttamente sia attraverso la formazione libanese di Hezbollah, e il più recente intervento – almeno in forma diretta – della Russia, tanto attivo da suscitare la concreta preoccupazione per un confronto diretto con le forze americane e degli altri Stati avversi al regime di Assad, possono vedersi più chiaramente alla luce degli interessi di questi paesi nel quadro della competizione per i gasdotti.

Ci si potrebbe chiedere se la posta in gioco valga la pena infernale di centinaia di migliaia di vittime civili e milioni di profughi tra reali e potenziali. Pare proprio di si, almeno sul freddo piano economico.”...(continua a leggere)
di Francesco Meneguzzo, pubblicato da ilprimatonazionale.it


Per approfondire:

* Padre Daniel Maes. Cinque anni di sofferenza e di menzogne; Un giorno anche i sassi grideranno la verità

* Sharmine Narwani. La narrazione che ha ucciso il popolo siriano

* Mons. Nazzaro, già vescovo emerito di Aleppo (2015). La vera ragione della guerra alla Siria; La primavera siriana, dai prodromi al califfato

* Samir Khalil, gesuita islamologo.Combattere lo stato islamico non Assad

* Mons. Khazen, vicario apostolico di Aleppo dei Latini. In Siria non esiste opposizione moderata 

* Armi chimiche. Anche il MIT smentisce Obama & C. sull'attacco chimico a Ghouta; Non fu la Siria a usare le armi chimiche

mg

luglio 31, 2016

TERRORISMO. Le dure parole di condanna da parte del mondo musulmano:"atti sacrileghi e blasfemi".


All’indomani della strage di Nizza del 14 luglio che costò la vita a 84 persone Roberto Cataldo, docente di Teologia e prassi del dialogo interreligioso presso l’Istituto Universitario Sophia, in un articolo pubblicato su Cittanuova, ci ha dato conto delle numerose e dure parole di condanna dell’accaduto pronunciate dagli Imam e dalle più prestigiose autorità religiose del mondo musulmano.
 
Condanne che non esitano a definire questi atti di violenza come sacrileghi e blasfemi, etichettano l’islamismo come malattia del secolo che prende in ostaggio l’Islam e fanno appello all’unità dei musulmani per liberare l’Islam dal cancro del terrorismo.
 
Riportiamo qui sotto alcuni brani dell’articolo
    
“Purtroppo anche questa volta, sebbene le agenzie di stampa abbiano dato ampio spazio alle dichiarazioni di rappresentanti delle varie comunità musulmane in Europa e nel mondo, il rimbalzo sui quotidiani è stato piuttosto limitato.
 
Eppure leaders musulmani sono intervenuti in maniera chiara e a volte assai dura, senza dubbio inequivocabile, sull’accaduto.
 
ll Consiglio francese del culto musulmano (Cfcm) e della grande Moschea di Parigi ha dichiarato immediatamente: «La Francia è stata colpita ancora una volta da un attentato di un’estrema gravità». Invitando i francesi a rimanere uniti, il Cfcm ha assicurato «la sua totale solidarietà agli abitanti di Nizza» e, allo stesso tempo, ha voluto far giungere «la sua profonda compassione alle famiglie delle numerose vittime, augurando anche un pronto ristabilimento ai feriti». A tutti i musulmani francesi viene rivolto perciò l’invito a dedicare la preghiera del venerdì alla «memoria delle vittime di questo barbaro attacco». Il rettore della moschea ed ex presidente del Cfcm, Dalil Boubakeur, ha dichiarato di essere profondamente costernato, chiamando «all’unità tutti i cittadini davanti a questa nuova terribile prova che mette in lutto tutta la comunità nazionale».
 
«Una persona che prende un camion e uccide così le persone è un animale selvaggio»– ha dichiarato Mahmoud Benzami, l’imam della moschea En Nour di Nizza, nel corso di una intervista a La Stampa di Torino. «I musulmani ne hanno abbastanza di dover dire ogni volta ‘non abbiamo nulla a che fare’: siamo tutti minacciati, i miei figli ieri sera erano là, volevano uscire, grazie a Dio sono rimasti a casa». «Io – ha ribadito Benzami – non cesso di distinguere e precisare che questi atti di terrorismo e radicalizzazione non hanno niente a che vedere con l’islam, che è una religione di pace, tolleranza e misericordia. Noi nel nostro istituto lavoriamo in collaborazione con la prefettura per combattere la radicalizzazione. Sappiamo bene che ci sono persone che ci cascano: la nostra priorità è la de-radicalizzazione».
 
Altrettanto ferme le condanne espresse dalle comunità musulmane e dai loro leaders in Italia. Chiara e netta, come sempre, la posizione di Abdellah Redouanne, segretario generale del Centro islamico culturale d’Italia (che ospita la grande moschea di Roma), personalità nota per l’equilibrio e la chiarezza delle posizioni oltre che per l’impegno per dialogo fra fedeli di diverse religioni.  «E’ un atto ignobile e abietto che nessuna religione o morale può giustificare». Redouanne con equilibrio e sguardo aperto ha saputo collegare la tragedia francese alle molte che si sono verificate recentemente in diverse parti del mondo. «Negli ultimi giorni – ha affermato - il terrorismo ha colpito Baghdad, Dacca, Aden, Gedda, El-Qatif e Medina. Ieri, 14 Luglio (data simbolo dei tre principi di fratellanza, uguaglianza e libertà) Nizza è stata insanguinata per mano di un terrorista che ha commesso una strage che non ha risparmiato neanche i bambini. Fedele ai nobili principi e valori dell’Islam, che rifiuta ogni forma di aggressione e incita gli individui e i popoli a convivere nella pace, il Centro islamico culturale d’Italia esprime la sua ferma e assoluta condanna di ogni atto di terrorismo e i sensi di vicinanza e cordoglio a coloro che sono stati così gravemente colpiti nella città di Nizza».
 
Sempre restando in Italia, non si può non apprezzare la dichiarazione immediata dell’Imam di Firenze Izzedine Elzir, presidente dell’Unione delle Comunità Islamiche d’Italia (UCOII). Raggiunto dalla Radio Vaticana, Izzedine Elzir, oltre al «grande dolore» per la strage ha affermato: «Di fronte a chi sul web considera questo massacro una vittoria del Daesh, o sedicente Stato islamico, ribadiamo che nessuna fede, nessuna religione, nessuna persona che abbia un pensiero equilibrato, può celebrare l’uccisione di un suo fratello, di un altro essere umano». L’Ucoii ha chiamato, poi, i musulmani e tutti gli uomini e le donne a reagire «con fermezza»di fronte a questa nuova tragedia, appellandosi all’unità «in questa dura prova che colpisce ancora una volta la comunità nazionale francese». «Tutti i nostri pensieri, il nostro cordoglio e la nostra preghiera vanno alle famiglie delle vittime e ai loro cari», ha affermato ancora Izzedine. L’Imam fiorentino ha, poi, sottolineato come ancora una volta l’autore di una strage non provenga da ambienti religiosi. «Purtroppo, nella nostra realtà europea abbiamo dei mostri, delle persone che sono cresciute senza conoscere la loro fede, che sono avviate allo spaccio, alla criminalità; che entrano in prigione e ne escono non soltanto come criminali, ma anche come assassini». Izzedine ha invitato tutti a riflettere seriamente e a dire con sincerità: ‘Abbiamo fallito! Ciascuno ha la sua responsabilità’. Solo così riusciremo a dare una risposta efficace e non rimanere nella trappola di questi criminali, questi assassini».
 
Ferma anche la condanna dell’attacco da parte dell’ Università di al-Azhar, la massima istituzione del mondo sunnita con sede al Cairo, che ha espresso un secco rifiuto ad ogni forma di violenza e ha condannato l’attentato facendo appello all’unità per «liberare il mondo dal terrorismo». «Questi abominevoli attentati terroristici — sottolinea un comunicato — contraddicono gli insegnamenti dell’islam». Nei mesi scorsi il grande imam di al-Azhar, al termine di una fruttuosa visita a papa Francesco aveva rilasciato una interessante intervista alla Radio Vaticana, conclusa con un appello al mondo intero «affinché possa unirsi e serrare i ranghi per affrontare e porre fine al terrorismo, perché credo che se questo terrorismo viene trascurato, non solo gli orientali ne pagheranno il prezzo, ma orientali e occidentali potrebbero soffrire insieme, come abbiamo visto. Pertanto questo è il mio appello al mondo e agli uomini liberi del mondo: mettetevi d’accordo subito e intervenite per porre fine ai fiumi di sangue»”.
 
 
Pochi giorni dopo la strage di Nizza un altro efferato delitto, il barbaro e vile assassinio di padre Jacques nella chiesa a Saint Etienne de Rouvray, ha nuovamente scosso il mondo musulmano che ha manifestato il suo sgomento con dure parole. Le riportiamo dall’articolo pubblicato su Cittanuova il 28 luglio scorso da Roberto Catalano.
 
“La Radio Vaticana ha trasmesso i commenti del rettore della Grande moschea di Parigi, Dalil Boubakeur. L’esponente musulmano ha definito l’attacco alla chiesa un “sacrilegio blasfemo contrario a ogni insegnamento della nostra religione”. Boubaker, che ha partecipato ad una riunione governativa con rappresentanti cristiani, dell'ebraismo e dell'Islam, ha sottolineato come sia necessario che "i luoghi di culto siano oggetto di una attenzione rafforzata, perché anche il più umile dei luoghi di culto è bersaglio di un'aggressione". "C'è una contraddizione di valori – ha insistito il leader musulmano. - Abbiamo sperato nell'avvenire, sarebbe tempo per i musulmani di assumere la consapevolezza di ciò che non funziona in questa visione mondiale dell'Islam e che i musulmani di Francia prendano l'iniziativa, l'iniziativa di una formazione molto più attenta dei nostri religiosi e anche la sensazione che si debba mettere in agenda anche una certa riforma delle nostre istituzioni".
 
Ma non solo in Francia si sono levate voci di condanna. Ahmad Al-Tayyib, il grande imam di Al-Azhar, ha avuto parole dure definendo l’accaduto come un "attacco contro valori Islam". "Gli autori di questo attacco barbaro – ha dichiarato Al-Tayyib - si sono spogliati dei valori dell'umanità e dei principi tolleranti dell'Islam che predica la pace e ordina di non uccidere gli innocenti". "L'Islam ordina il rispetto di tutti i luoghi di culto dei non musulmani", ha aggiunto, rinnovando l' appello a unirsi per far fronte al "cancro del terrorismo". Sempre dal Cairo il Gran Mufti d'Egitto, Sheik Shawki Allam, ha dichiarato che si è trattato di un "atto terrorista e criminale" e che è stato "commesso da estremisti". "Tale atto viola tutti gli insegnamenti dell'Islam", ha aggiunto Allam, che ha poi offerto le condoglianze al popolo francese e alle famiglie delle vittime.
 
Significativa anche la serie di condanne riportate dall’agenzia di stampa cattolica AsiaNews. Fra tutti i messaggi giunti, l’agenzia pubblica quelli dell’imam di Nimes, Hocine Drouiche, vicepresidente degli imam di Francia, e Kamel Abderrahmani, giovane studente universitario algerino in Francia. Entrambi con coraggio etichettano l’islamismo come la “malattia del secolo”, che “prende in ostaggio l’islam” stesso e chiedono a tutti i musulmani di “muoversi” e fare dei gesti di unità con gli altri francesi e le altre religioni”.
 
 Ancora una volta le forze oscurantiste colpiscono e questa volta un sacerdote è stato ucciso. In modo selvaggio, egli è stato decapitato in nome di Dio – afferma Abderrahmani. “In quanto giovane musulmano, faccio appello a tutti i musulmani a combattere questa ideologia con tutti i mezzi possibili”. Il giovane, infatti, mette in guardia i musulmani che “questa ideologia costituisce prima di tutto un pericolo per loro stessi. Di recente in Afghanistan, i mercenari di questa ideologia hanno commesso un genocidio: 70 musulmani uccisi. In Iraq, qualche giorno prima, più di 200 persone sono state massacrate. (…) Essa ha colpito anche i luoghi sacri dell’islam”."
 
 
 
Anche il mondo cattolico ha reagito per voce ferma e chiara del Papa. Papa Francesco intervenendo sull’attentato alla chiesa di Rouen .ha usato parole dure contro quelli che in altra occasione ha definito i pianificatori del terrore, i veri terroristi: «Non parlo di guerra di religione. Le religioni, tutte le religioni, vogliono la pace. La guerra la vogliono gli altri. Capito! ... Quando parlo di guerra parlo di guerra sul serio, non di guerra di religione. C’è guerra di interessi, c’è guerra per i soldi, c’è guerra per le risorse della natura, c’è guerra per il dominio dei popoli, questa è la guerra».
 
 
Ma l’assassinio di padre Jacques ha fatto emergere un fatto nuovo di estrema importanza: la volontà di combattere il terrorismo uniti, indipendentemente dall’appartenenza religiosa. Si è fatto appello alla fratellanza che deve unire il popolo Cristiano e Musulmano con un’iniziativa davvero eccezionale: l' invito rivolto dagli Imam francesi ai fedeli musulmani di partecipare alla messa cattolica il 31 luglio nella chiesa più vicina. Decisione presa dal Conseil Français du Culte Musulman, organismo ufficiale che riunisce gli esponenti religiosi islamici in Francia e fatta propria poi anche dagli Imam italiani.
 
 
mg

giugno 19, 2016

CASA AFRICA. Con il "Coro per la Pace" alla Festa dei Popoli di Sanremo- 23 e 25 giugno-



Da diversi anni Casa Africa è tra le associazioni promotrici della Festa dei Popoli di Sanremo, evento che si tiene ogni anno verso la fine del mese di giugno.
Ogni anno le comunità immigrate provenienti da diverse parti del globo (Sud America, Asia, Africa) e che vivono e lavorano nella provincia di Imperia si incontrano per offrire e far conoscere brani della cultura del loro paese al numeroso pubblico che affolla la storica Piazza San Siro di Sanremo.  Balli, musiche, canzoni, poesie che le singole comunità preparano nel corso dell’anno sacrificando il loro tempo libero.
Quest’anno la Festa dei Popoli cade durante il Ramadan, il mese di digiuno e di preghiera celebrato dalla comunità musulmana di tutto il mondo.
La comunità musulmana di Sanremo ha voluto tuttavia essere presente e portare i suoi saluti alla Festa con la canzone Assalamu Alaika che significa “La pace sia su di te”, il tradizionale saluto dei musulmani. La canterà la sera del 25 giugno sul palco di  piazza San Siro il “Coro per la pace” che un gruppo di giovani studentesse di origine marocchina e tunisina ha deciso recentemente di costituire sotto la direzione del maestro Diego di Caro.

Qui sotto potete leggere il nutrito programma della Festa che prevede la sera del 23 giugno una  riflessione e un confronto sul drammatico problema dei rifugiati.  



maggio 30, 2016

ISLAM. Il protagonismo delle donne in terra d'Islam. Un excursus storico e geopolitico


La condizione della donna nel mondo islamico è un tema oggi fortemente dibattuto e non solo dagli islamologi. 

Anche gli islamofobi sono interessati all'argomento per presentarne una visione appiattita e mantenere in vita quegli stereotipi che fanno giustizia della complessità dell'universo femminile islamico e dei numerosi movimenti femminili che da anni lottano per la parità di genere e si dedicano all'analisi dei diritti della donna dal punto di vista dell'esegesi del Corano. Vedi sul punto l'interessante intervista all'attivista politica e scrittrice iraniana Jila Movahed Sahriat Panahi pubblicata da Pressenza.

Recentemente in Italia sono stati pubblicati diversi studi che hanno portato alla ribalta le mille sfaccettature del “femminismo” nei vari contesti geopolitici del mondo islamico, studi che testimoniano altresì che la lotta per l’emancipazione femminile non è un’esperienza esclusiva dell’Occidente. Tra questi il libro "Le donne di Allah", un viaggio per incontrare chi crede nel Corano come simbolo di libertà e di progresso, di Anna Vanzan, iranista e islamologa, docente di Cultura Araba nell’Università di Milano, e Femminismi musulmani Un incontro sul Gender Jihad, curato da Ada Assirelli, Marisa Iannucci, Marina Mannucci, Maria Paola Patuelli, di cui abbiamo parlato in questo blog.


Particolarmente interessante è da ultimo il recente studio,"Il protagonismo delle donne in terra d’Islam", curato da Biancamaria Scarcia Amoretti, docente di islamistica all’Università La Sapienza di Roma, coadiuvata da Laila Karami, di origini iraniane, studiosa della storia delle donne in contesti musulmani. Un testo di storia  che parte dalla centralità della realtà delle donne nel mondo musulmano e ricolloca il loro movimento emancipatorio nei diversi contesti storici e geografici dei singoli paesi, i cui confini geopolitici sono sempre mutati, dalla stagione degli Imperi al periodo coloniale e post coloniale. Ne riportiamo qui sotto la recensione pubblicata da Arabpress. Nostri sono i rinvii.

"Il lavoro delle due studiose è stato strutturato suddividendo questo vasto mondo in tre grandi contesti geopolitici: l’area mediterranea, l’area mediorientale e l’area del Golfo Persico e dell’Oceano Indiano.


Nell’ambito di ciascuna area sono state approfondite le tematiche legate alla condizione femminile nei singoli paesi, focalizzando l’attenzione su un excursus storico politico necessario per contestualizzare la realtà in cui viene a determinarsi il ruolo delle donne, la loro condizione all’interno del nucleo sociale e familiare.

Questo articolato e complesso lavoro di contestualizzazione appare particolarmente importante in quanto permette di differenziare le singole situazioni che altrimenti, nell’immaginario collettivo occidentale, verrebbero accomunate in una sterile generalizzazione. Inquadrare storicamente le evoluzioni sociali e politiche dei singoli paesi aiuta a cogliere meglio e con maggiore obiettività i risvolti in tema di condizione femminile.

Difficilmente infatti si può accomunare la condizione delle donne tunisine con quelle dell’Arabia Saudita, o di quella delle donne marocchine con quelle indonesiane.

Scopriamo quindi che in Tunisia le donne sono parte attiva della vita politica e sociale del paese più che altrove, l’associazionismo femminile ha radici antiche e la presenza femminile nelle professioni liberali è molto diffusa. Le donne tunisine godono di diritti molto simili a quelli delle donne occidentali e questo aspetto di modernità trae linfa proprio dalla spiccata vocazione alla laicità che contraddistingue il paese.

Un percorso simile caratterizza la situazione in Marocco e negli altri paesi del Maghreb. Probabilmente, questa tendenza alla modernità va in parte imputata anche all’esperienza coloniale che di fatto ha segnato la storia recente dei paesi che si affacciano sulla sponda sud del Mediterraneo.

Altro scenario è quello dell’area mediorientale dove paesi come Iraq, Iran e Afghanistan disegnano una realtà poliedrica. Tuttavia, in tutti sembra delinearsi un percorso comune che vede le donne lottare per i loro diritti, lotte che producono i loro effetti ma che inesorabilmente finiscono per regredire con il mutamento dello scenario politico dei paesi di riferimento. È per esempio il caso dell’Iraq, dove la parità di genere viene riconosciuta con l’entrata in vigore della Costituzione nel 1970, ma dove la condizione femminile subisce una brusca retromarcia all’indomani dell’intervento anglo-americano del 2003.

Un caso a parte è costituito dall’Iran, paese dalla storia millenaria in cui la presenza femminile sulla scena pubblica è tanto determinante quanto apparentemente nascosta. Sotto il regime di Khatami l’attivismo femminile è cresciuto in maniera significativa. Le donne si sono battute per modificare le leggi a loro sfavorevoli anche se i risultati sono stati spesso deludenti perché ogni riforma viene di fatto bloccata dal “Consiglio dei guardiani”. Tuttavia le donne hanno continuato e continuano a presidiare la scena politica, culturale e sociale del paese, assurgendo di conseguenza al ruolo di principale bersaglio della repressione. Una interessante riflessione viene fatta sul tema dell’imposizione dello hijab, da più parti considerato lo strumento di controllo per eccellenza sul corpo femminile. Ma paradossalmente proprio l’imposizione del velo ha permesso in Iran a molte donne di potersi emancipare, uscendo di casa e partecipando alla vita pubblica. Senza velo, molte di queste donne appartenenti a classi sociali popolari e più tradizionaliste, non avrebbero avuto la possibilità di “uscire allo scoperto”.

L’area del Golfo rappresenta un caleidoscopio di differenti situazioni, molte in contraddizione tra loro: dalla rigidità dell’Arabia Saudita, dove comunque le donne hanno, seppur faticosamente, iniziato un percorso di emancipazione, alla modernizzazione dell’ Oman dove le donne vengono considerate importanti attori sociali ed espressamente riconosciute cittadine della nazione al pari degli uomini.

Gli esempi citati servono semplicemente a disegnare un mosaico di situazioni differenti, a volte speculari e quasi mai sovrapponibili, che ci danno la misura della complessità del tema affrontato. L’universo femminile in terra d’Islam presenta coordinate e caratteri differenziati che meritano approfondimenti e contestualizzazioni nello scenario storico e politico che caratterizza ciascun singolo paese.

La dettagliata analisi delle due studiose ci parla quindi di un percorso di emancipazione più o meno complesso e difficile che le donne appartenenti al mondo musulmano hanno compiuto e continuato a compiere, un protagonismo, quello femminile, che non necessariamente va confrontato con le esperienze di emancipazione delle donne occidentali ma che va inserito in un contesto culturale profondamente diverso ed articolato".

Leggi anche in questo blog La primavera araba è donna
mg

aprile 27, 2016

ISLAM. Il Gender Jihad




Quello dell’uguaglianza di genere rappresenta il nodo intorno al quale si articola l’evoluzione ugualitaria della società nel suo complesso. A sua volta l'empowerment femminile, e cioè il pieno accesso e la partecipazione delle donne alle strutture di potere, costituisce un fattore essenziale per la costruzione e il mantenimento della della pace (Risoluzione del CdS delle NU 1325/2000). Un fattore cruciale in un mondo dilaniato da conflitti nei quali le donne non hanno voce. 
Anche nei paesi islamici da decenni movimenti femminili, intellettuali, accademici e militanti, di ispirazione religiosa e laica, denunciano, in varie forme, le discriminazioni di genere; chiedono riforme ai governi, propongono reinterpretazioni coraggiose delle Sure del Corano. Poco spazio però viene concesso a questi attori sociali sui media occidentali, giacché si preferisce mantenere in vita obsoleti stereotipi e lasciare spazio ad analisi che sono funzionali ad una rappresentazione colonialista ed eurocentrica dell’Islam e delle culture arabe che si cerca di stigmatizzare in massa.

"In questo modo, avverte Asma Lamrabet (in atti del “Seminario Islam e Femminismo, stereotipi occidentali e complessità dell’universo femminile islamico”, in questo blog), le donne musulmane nelle loro più varie rappresentazioni restano imprigionate tra due visioni conflittuali e perennemente contrapposte: un approccio musulmano tradizionalista, rigido e anacronistico e un approccio occidentale etnocentrico che veicola stereotipi e clichés semplicistici e sempre più islamofobi. Tra queste due visioni del mondo è soprattutto la parola delle donne musulmane ad essere zittita…L’emancipazione delle donne musulmane non può diventare effettiva senza una vera e propria presa di coscienza e di parola da parte di loro stesse e non di altre che parlino al posto loro!”


Del resto, sottolinea ancora Asma Lamrabet, Il discorso di liberazione portato avanti dall’occidente non può essere credibile da un certo punto di vista islamico perché, oltre ad essere screditato da politiche internazionali fondamentalmente ingiuste nei confronti di un gran numero di paesi musulmani, va a toccare uno degli ultimi baluardi dell’identità musulmana, cioè la donna. In effetti la donna sembra rappresentare per questo mondo islamico dall’identità ferita, l’ultimo baluardo da difendere...La donna musulmana ormai rappresenta la vittima ideale di questa costruzione ideologica speculare e si vede costretta ad incarnare, data la sua posizione di guardiana della morale, il contro modello rispetto a quello veicolato dall’occidente considerato privo di valori”

 
Barbara Mapelli nell'articolo che qui riportiamo invita le "femministe occidentali" ad accostarsi con l’umiltà di chi non sa già tutto alla complessità della realtà femminile islamica e a quello che viene definito il Gender Jihad e cioè l'impegno delle donne musulmane per raggiungere l'emancipazione e l'uguaglianza restando fedeli all'Islam.

“Credo che molte e molti di noi, leggendo che le prime forme di movimento per la liberazione della donna nel mondo arabo sono nate tra fine Ottocento e inizi Novecento, più o meno contemporaneamente a quanto stava succedendo in Occidente, resteranno stupiti. A me è capitato sfogliando le prime pagine del volume "Femminismi Musulmani. Un incontro sul Gender Jihad".

Stupore salutare per la nostra mente e il nostro giudizio perché avvia a scrostare dall’una e dall’altro i primi strati di persistenti stereotipi che accompagnano le nostre consapevolezze eurocentriche, l’orgoglio di chi ha la convinzione di detenere i soli primati di libertà e democraticità che illuminano il pianeta in cui viviamo. E nulla naturalmente voglio togliere o negare di questa libertà, che tra l’altro mi consente di scrivere senza alcun timore quel che penso, ma è sempre utile che le nostre coscienze occidentali (e femministe) vengano in contatto e si sforzino di comprendere, per quanto possibile, mondi differenti, per non ridurci a un unicum di pensiero semplificato e semplificante, che comprende anche chi si ammanta di veli di purezza e innocenza perché si indigna e si chiama fuori dalle ideologie e dai valori occidentali, di cui peraltro gode tutti i vantaggi.
Allora spazziamo la mente da pregiudizi di destra e di sinistra, apriamo gli occhi e leggiamo alcune pagine con l’umiltà di chi non sa già tutto, ma anzi spera ed è disponibile a lasciarsi disorientare.
Sappiamo, ed è innegabile, che nei paesi islamici le donne vivono limitazioni alla libertà personale e discriminazioni anche sul piano giuridico, oltre che condizioni di povertà, analfabetismo, disagio sociale superiore agli uomini, dai quali peraltro subiscono violenze soprattutto domestiche (ma questa è una storia nota anche da noi). Eppure, come già scrivevo, non è breve la storia che anche il mondo arabo può vantare di movimenti femminili e femministi, spesso nel Novecento affiancati alla lotta per la liberazione dai regimi coloniali. A quest’ultima le donne hanno partecipato attivamente, per poi, quando le cose sono terminate, essere lasciate a casa, ma anche questa è una storia che conosciamo bene.
Entriamo però meglio nelle situazioni della contemporaneità, partendo da un’affermazione necessaria e iniziale che ci consente uno sguardo più libero. Il mondo islamico non è un monolite uguale ovunque, ma è piuttosto un universo complesso, variegato, eterogeneo, nel quale la religione ha un ruolo centrale, ma non è l’unica causa della subordinazione femminile – lo sono ad esempio anche i regimi autarchici, autoritari che ancora vivono o sono stati recentemente rovesciati nel mondo arabo – e dell’impossibilità delle donne musulmane ad avvicinarsi alla modernità, ai mutamenti sociali, al sistema dei diritti. È questa una percezione riduttiva della realtà femminile araba, che paradossalmente accomuna il prevalente giudizio occidentale alle concezioni che guidano su questo terreno gli estremisti islamici, che impongono, in nome della loro religione, le condizioni di inferiorità e di esclusione, oltre che di ignoranza delle donne (ma a questo proposito cerchiamo di ricordare che dal mito della donna ignorante non siamo poi temporalmente troppo lontani neppure noi europei, italiani in particolare). Un buon sistema infatti per noi di contrastare gli stereotipi e liberarci progressivamente dagli strati di pregiudizio è quello di non dimenticare da dove veniamo, quali sono le culture che rappresentano la nostra storia, anche recente. Velo docet.
Torno alla storia dei femminismi islamici: gli attuali, dopo i movimenti di tutta la prima metà del Novecento, si sviluppano intorno agli anni Novanta dello scorso secolo e sono un movimento che si basa, pur con differenze interne, sulla rilettura del Corano in una prospettiva femminile e propone la riforma di leggi e istituzioni patriarcali in nome dell’Islam. La religione non rappresenta dunque per questi movimenti un ritorno al passato, ma una forma di reinvenzione individuale e collettiva che fa i conti con la società contemporanea e si propone di riscrivere le forme della modernità. Altro stereotipo che le donne islamiche ci aiutano a decostruire: il supposto contrasto tra tradizione e modernità. Ed è qui che ci si presenta il cuore e il significato centrale dei movimenti femministi islamici: il lavoro di reinterpretazione del testo sacro, del Corano, sottraendolo alla normatività dei contesti e culture storiche e patriarcali che l’hanno tradizionalmente interpretato.
Occorre distinguere, insegnano le teologhe islamiche, tra il testo e l’esegesi, cioè l’interpretazione che se ne è fatta nella storia. La causa della discriminazione delle donne non è il Corano, ma la religione vissuta in società patriarcali che l’hanno interpretato secondo le culture dominanti e hanno creato una tradizione religiosa sessista. Le femministe islamiche, fin dalle pioniere dello scorso secolo, si sono impegnate nel lavoro di decostruzione delle precedenti interpretazioni maschiliste e di rilettura dei versetti con sguardo di genere (v. Asma Lamrabet, "Femminismo Islamico. I precetti del Corano a partire dalla prospettiva dell'uguaglianza di genere" in atti del Seminario "Islam e Femminismo, stereotipi occidentali e complessità dell'universo femminile islamico", in questo blog, ndr).  Ed è questa soprattutto la differenza con i movimenti dei femminismi occidentali, che per lo più si sono tenuti distanti dalla dimensione religiosa, anche se vi sono ormai in Europa e anche in Italia interessanti scritti e prese di posizione di teologhe femministe, e un coordinamento (CTI) che riunisce le diverse anime della teologia cristiana. Ma credo che questo discorso meriti un’attenzione a parte e una maggiore vicinanza, che il femminismo italiano, generalmente o prevalentemente considerato laico, dovrebbe approfondire.
 In ogni caso, secondo i movimenti delle donne islamiche, la reinterpretazione del Corano ne svela il messaggio più genuino di sostanziale uguaglianza tra donne e uomini, «in verità non farò andare perduto nulla di quello che fate, uomini o donne che siate, che gli uni sono come gli altri» (Corano, III, 195), e la modernità del testo rispetto a temi controversi quali la poligamia o il divorzio, se collocato nei tempi in cui il Corano fu elaborato.
 L’interpretazione femminista parte dal presupposto che il Corano sia un testo polisemico, suscettibile di varie interpretazioni, mentre risulta fuorviante il limitarsi a citazioni singole estrapolate dal contesto. Un esempio molto chiaro può riferirsi alla virilità prodigiosa del Profeta, molto citata naturalmente da alcune interpretazioni maschiliste: in una di esse si afferma che Maometto in una sola notte copulò con tutte e nove le sue mogli. Una potenza maschile che viene direttamente collegata al dono della profezia, come simbolo di una forza virile che può tenere a bada contemporaneamente molte donne. Eppure, sostengono le interpreti femministe, esistono nel Corano immagini di una ben diversa mascolinità, attenta, affettuosa, in grado di prendersi cura – e con reciprocità – della persona che ha accanto.
Il pensiero femminista islamico prende il nome di Gender Jihad: potremmo tradurre il termine, semplificando e con qualche risonanza nella nostra storia, in «lotta femminista», con l’attenzione però che si tratta soprattutto di una lotta della mente, uno sforzo dell’anima e dell’intelligenza e del corpo delle donne per raggiungere l’obiettivo, attraverso la rilettura del Corano, di una società più giusta nei confronti dei soggetti femminili. Le femministe musulmane ci ricordano – è una lezione che risulta (o dovrebbe) molto utile anche a noi – che il luogo della maggiore problematicità nelle relazioni tra donne e uomini non è tanto lo spazio pubblico, quanto il privato, con i nodi assai difficili da sciogliere, per noi e per loro, nelle relazioni tra i due sessi. Ma anche molti uomini partecipano a questo sforzo dei movimenti femministi islamici, che sono – contro ogni residua credenza di contrasto tra modernità e tradizione – diffusi in tutti i paesi a maggioranza o comunque presenza significativa di musulmani (anche da noi quindi) e in rete tra loro.
Ancora due osservazioni prima di chiudere un discorso che in realtà andrebbe ulteriormente aperto. La distanza tra i femminismi islamici e i nostri. Non si tratta solo della centralità della religione per i movimenti musulmani, che in Europa è marginale, come già dicevo, ma di una posizione critica nei nostri confronti da parte delle donne musulmane e il desiderio e la pratica di offrire al termine femminista un’autonomia dall’accezione occidentale per sottolineare percorsi differenti, con obiettivi che si discostano dalle presunte libertà occidentali. Ricordiamo il famoso discorso di Fatima Mernissi sulla taglia 42, intesa come il velo occidentale. E a proposito di velo l’ultima osservazione, anch’essa utile per proseguire il nostro lavoro di liberazione dagli strati sovrapposti di pregiudizio. Il velo è per noi donne occidentali il simbolo più evidente della subordinazione femminile – e ci dimentichiamo che solo un paio di generazioni fa una donna italiana non sarebbe mai uscita di casa senza nulla in testa.
Eppure il velo può essere interpretato in due modi opposti, così ci insegnano le femministe musulmane, può essere indossato per obbligo o passivo adeguamento, ma può anche essere scelto, per costume, per moda, per difesa da una società estranea o per affermare un’identità e un diritto sul proprio corpo, sottraendolo allo sguardo e alla volontà maschile, al modello occidentale di esposizione e di consumo del corpo femminile, quello che è stato definito il velo della nudità. L’uso del velo può essere inteso dunque come un atto politico, di dissidenza anziché di assuefazione a norme dettate da altri, così afferma la femminista marocchina Nadia Yassine.
 E anche qui si riapre un discorso infinito, che può però esserci utile nel dialogo tra donne diverse, se ciascuna, dall’una e dall’altra parte, riesce ad ascoltare veramente, il più possibile libera da quei pregiudizi che nascono soprattutto dalla paura”

Barbara Mapelli, dal sito la 27esima ora

Sul tema, in questo blog:
La primavera araba è donna
Vedi anche il recente Progetto Aisha, realizzato dal CAIM, Coordinamento delle associazioni Islamiche di Milano, Monza e Brianza, per contrastare la violenza e la discriminazione di genere. 

mg